giovedì 13 ottobre 2016

GIUSEPPE ALIANO - OTTOBRE 2016 - LE SPESE DI GIUDIZIO NEL PROCESSO TRIBUTARIO


 

Riforma del processo tributario

Decreto Legislativo n. 156 del 24.09.2015

 

Le spese di giudizio nel processo tributario

 

 

Analisi della disciplina delle spese processuali, inasprita a  seguito dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 156 del 24 settembre 2015, nella ormai costante ricerca di strumenti deterrenti del contenzioso ed incentivanti all’utilizzo delle forme definitorie. Ipotesi di profili di incostituzionalità.

 

 

di Giuseppe Aliano[1]

 

Sommario

 

  • Premessa

  1. Il nuovo art. 15 del D.Lgs. 546/92 in vigore dal 01.01.2016
  2. Le spese di giudizio – criteri – esigenze di modifica - scopi
  3. La soccombenza
  4. Motivazione in ordine alla compensazione delle spese
  5. Lite temeraria e risarcimento del danno
  6. La responsabilità aggravata ed il risarcimento del danno
  7. Sospensione dell’atto impugnato e spese processuali

7.1 Questione di legittimità alla Consulta sulle spese di giudizio

  1. Liquidazione delle spese processuali.
  2. Riscossione a seguito di condanna.
  3. Spese processuali a seguito di mediazione e conciliazione

10.1  . La condanna alle spese della parte soccombente che rifiuta la proposta di mediazione

10.2   La condanna alle spese della parte che rifiuta la proposta di conciliazione

  1. Compensazione delle spese e cessazione della materia del contendere
  2. Conclusioni

 

 

Premessa

Tutte le “riforme” e le disposizioni di legge degli ultimi anni sono state caratterizzate dalla evidente ricerca, da parte del Legislatore, di mezzi di natura “deterrente” all’utilizzo generalizzato del contenzioso tributario, con l’introduzione di nuove forme “incentivanti” di definizione, peraltro obbligatorie in presenza di determinati presupposti (mediazione), e con estensione, per altre già esistenti, dei margini di applicabilità (conciliazione giudiziale), la cui mancata applicazione o adesione prevede “penalizzazioni”, in alcuni casi con maggiorazione di spese processuali, ed in altri del contributo unificato.

Dunque un ipotizzabile aumento dei costi di difesa, di cui bisogna tener conto nella valutazione dei probabili esiti della lite e nelle decisioni da assumere in tali contesti.

 

 

1.      Il nuovo art. 15 del D.Lgs. 546/92[2]

1. La parte soccombente è condannata a rimborsare le spese del giudizio che sono liquidate con la sentenza.

2. Le spese di giudizio possono essere compensate in tutto o in parte dalla commissione tributaria soltanto in caso di soccombenza reciproca o qualora sussistano gravi ed eccezionali ragioni che devono essere espressamente motivate.

2-bis. Si applicano le disposizioni di cui all'articolo 96, commi primo e terzo, del codice di procedura civile.

2-ter. Le spese di giudizio comprendono, oltre al contributo unificato, gli onorari e i diritti del difensore, le spese generali e gli esborsi sostenuti, oltre il contributo previdenziale e l'imposta sul valore aggiunto, se dovuti.

2-quater. Con l'ordinanza che decide sulle istanze cautelari la commissione provvede sulle spese della relativa fase. La pronuncia sulle spese conserva efficacia anche dopo il provvedimento che definisce il giudizio, salvo diversa statuizione espressa nella sentenza di merito.

2-quinquies. I compensi agli incaricati dell'assistenza tecnica sono liquidati sulla base dei parametri previsti per le singole categorie professionali. Agli iscritti negli elenchi di cui all'articolo 12, comma 4, si applicano i parametri previsti per i dottori commercialisti e gli esperti contabili.

2-sexies. Nella liquidazione delle spese a favore dell'ente impositore, dell'agente della riscossione e dei soggetti iscritti nell'albo di cui all'articolo 53 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, se assistiti da propri funzionari, si applicano le disposizioni per la liquidazione del compenso spettante agli avvocati, con la riduzione del venti per cento dell'importo complessivo ivi previsto. La riscossione avviene mediante iscrizione a ruolo a titolo definitivo dopo il passaggio in giudicato della sentenza.

2-septies. Nelle controversie di cui all'articolo 17-bis le spese di giudizio di cui al comma 1 sono maggiorate del 50 per cento a titolo di rimborso delle maggiori spese del procedimento.

2-octies. Qualora una delle parti abbia formulato una proposta conciliativa, non accettata dall'altra parte senza giustificato motivo, restano a carico di quest'ultima le spese del processo ove il riconoscimento delle sue pretese risulti inferiore al contenuto della proposta ad essa effettuata. Se e' intervenuta conciliazione le spese si intendono compensate, salvo che le parti stesse abbiano diversamente convenuto nel processo verbale di conciliazione.

 

2.      Le spese di giudizio – criteri – esigenze di modifica - scopi

L’articolo 10, comma 1, lettera b), n. 10 della legge n. 23 del 2014 ha demandato al legislatore delegato l’individuazione di criteri di maggior rigore nell’applicazione del principio della soccombenza ai fini della condanna al rimborso delle spese del giudizio.

In attuazione del predetto mandato, l’articolo 9, comma 1, lettera f) del decreto di riforma ha modificato l’articolo 15 del decreto n. 546 in materia di spese di giudizio.

Il principio ispiratore delle modifiche in tema di spese processuali risiede nell’esigenza:

-          da un lato, di scoraggiare l’abuso dello strumento processuale e favorire l’utilizzo degli strumenti deflattivi del contenzioso[3];

-          dall’altro, di evitare che la parte sia costretta a sopportare gli oneri del giudizio nel caso di pretesa tributaria infondata[4].

In ossequio agli indicati principi, con la modifica dell’articolo 15 del Dlgs 546/1992, è stato ribadito il criterio secondo cui le spese del giudizio seguono la soccombenza, mentre la possibilità per la commissione tributaria di compensare in tutto o in parte le spese - traslata al comma 2 della norma in esame - è stata consentita solo “in caso di soccombenza reciproca o qualora sussistano gravi ed eccezionali ragioni che devono essere espressamente motivate”.

In altri termini, la parte che risulti soccombente nel merito deve essere condannata a rimborsare le spese del giudizio liquidate con la sentenza, salvo compensazione delle medesime che può essere disposta solo qualora siano presenti le condizioni alternative della soccombenza reciproca[5] o della sussistenza, nel caso concreto, di gravi ed eccezionali ragioni, espressamente motivate dal giudice nel provvedimento che decide sulle spese.

Ci si è discostati, dunque, dal testo dell’articolo 92 cpc - richiamato nella precedente formulazione - secondo cui la compensazione è possibile solo in caso di assoluta novità della questione trattata o di mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti. Si può, tuttavia, ritenere che i criteri offerti dal codice di procedura civile continuino a rilevare, in quanto comunque integranti le eccezionali circostanze richieste dalla nuova formulazione.

Con l’introduzione nel corpo dell’articolo 15 del nuovo comma 2-bis, il legislatore, per scoraggiare le “liti temerarie”, ha espressamente richiamato l’applicabilità dell’articolo 96, primo e terzo comma, cpc, in tema di responsabilità aggravata (i commi primo e terzo dell’articolo 96 cpc dispongono, rispettivamente, che “Se risulta che la parte soccombente ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, il giudice, su istanza dell'altra parte, la condanna, oltre che alle spese, al risarcimento dei danni, che liquida, anche d'ufficio, nella sentenza” e che “In ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’articolo 91, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata”).

Con i commi 2-septies e 2-octies, inoltre, il legislatore ha inteso incentivare la risoluzione stragiudiziale delle controversie e il ricorso agli strumenti deflattivi del contenzioso.
In particolare, il disposto del nuovo comma 2-septies ha confermato che le spese di giudizio sono maggiorate del 50% nelle controversie proposte avverso atti reclamabili ai sensi dell’articolo 17-bis del Dlgs 546/1992. La maggiorazione è prevista a titolo di rimborso delle spese sostenute per la fase del procedimento amministrativo, al fine di riconoscere alla parte vittoriosa i maggiori oneri sostenuti nella fase procedimentale obbligatoria ante causam.

Il comma 2-octies ha previsto che le spese del processo saranno interamente addebitate alla parte che ha rifiutato la proposta di conciliazione ove il riconoscimento delle pretese risulti inferiore al contenuto dell’accordo proposto. In altri termini, se sussistevano le condizioni per la conclusione di un accordo favorevole a entrambe le parti e una di esse ha rifiutato, senza giustificato motivo, la proposta di conciliazione, il giudice addebiterà le spese del processo alla parte che ha rifiutato l’accordo. In caso di conclusione della conciliazione, invece, le spese del processo saranno dichiarate compensate, salvo diverso accordo nel processo verbale di conciliazione (nella disposizione in commento trova conferma quanto affermato in via interpretativa dall’Agenzia delle Entrate al punto 2.7 della circolare 17/2010, ove si è ritenuta applicabile anche al contenzioso tributario la disposizione di cui all’articolo 91 cpc e, per l’effetto, si è previsto che “gli Uffici, nei casi in cui il contribuente abbia rifiutato la proposta di conciliazione giudiziale formulata, anche a seguito di tentativo di conciliazione esperito d’ufficio dal giudice, avanzeranno richiesta di condanna alle spese subordinandola alla circostanza che la Commissione tributaria decida in senso conforme alla proposta di conciliazione ovvero in termini ancora più favorevoli all’Ufficio”).


3.      La soccombenza

In particolare, è stato ribadito il principio secondo cui le spese del giudizio tributario seguono la soccombenza, mentre la possibilità per la commissione tributaria di compensare in tutto o in parte le medesime spese - traslata al comma 2 della norma in esame – è consentita solo “in caso di soccombenza reciproca o qualora sussistano gravi ed eccezionali ragioni, che devono essere espressamente motivate”.

In altri termini, in ossequio alla tutela del diritto di difesa di cui all’articolo 24 della Costituzione, la regola generale deve essere che “la parte interamente vittoriosa non può essere condannata, nemmeno per una minima quota, al pagamento delle spese processuali[6].

Al fine di porre le spese a carico della parte soccombente, la giurisprudenza di legittimità ha precisato che “Il soccombente deve individuarsi facendo ricorso al principio di causalità per cui, obbligata a rimborsare le spese processuali è la parte che, con il comportamento tenuto fuori dal processo, ovvero dandovi inizio o resistendo con modi e forme non previste dal diritto, abbia dato causa al processo ovvero abbia contribuito al suo protrarsi[7].

In deroga alla predetta regola generale, il giudice può disporre la compensazione delle spese del giudizio qualora alternativamente:

- vi sia stata la soccombenza reciproca;

- sussistano, nel caso concreto, gravi ed eccezionali ragioni, che devono essere espressamente motivate dal giudice nel dispositivo sulle spese[8].

La nozione di soccombenza reciproca, come precisato dalla Suprema Corte, “sottende - anche in relazione al principio di causalità - una pluralità di domande contrapposte, accolte o rigettate e che si siano trovate in cumulo nel medesimo processo fra le stesse parti, ovvero anche l’accoglimento parziale dell’unica domanda proposta, allorché essa sia stata articolata in più capi e ne siano stati accolti uno od alcuni e rigettati gli altri, ovvero quando la parzialità dell’accoglimento sia meramente quantitativa e riguardi una domanda articolata in un unico capo” [9],[10],[11],[12],[13],[14].

 

4.      Motivazione in ordine alla compensazione delle spese

In ordine alla sussistenza delle gravi ed eccezionali ragioni, la Corte di cassazione ha chiarito che gli elementi apprezzati dal giudice di merito a sostegno del decisum devono riguardare specifiche circostanze o aspetti della controversia decisa[15]  e devono essere soppesati “alla luce degli imposti criteri della gravità (in relazione alle ripercussioni sull’esito del processo o sul suo svolgimento) ed eccezionalità (che, diversamente, rimanda ad una situazione tutt’altro che ordinaria in quanto caratterizzata da circostanze assolutamente peculiari)[16].

Non può, pertanto, ritenersi soddisfatto l’obbligo motivazionale quando il giudice abbia compensato le spese “per motivi di equità”, non altrimenti specificati[17], né quando le argomentazioni del decidente si riferiscono genericamente alla “peculiarità” della vicenda o alla “qualità delle parti” o anche alla “natura della controversia[18].

 

5.      Lite temeraria e risarcimento del danno

Con l’introduzione nel corpo dell’articolo 15 del nuovo comma 2-bis, il legislatore, al fine di scoraggiare le c.d. liti temerarie, richiama espressamente l’applicabilità dell’articolo 96, primo e terzo comma, c.p.c., in tema di condanna al risarcimento del danno per responsabilità aggravata, che si aggiunge alla condanna alla rifusione delle spese di lite.

I commi primo e terzo dell’articolo 96 c.p.c. dispongono, rispettivamente, che “Se risulta che la parte soccombente ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, il giudice, su istanza dell’altra parte, la condanna, oltre che alle spese, al risarcimento dei danni, che liquida, anche d’ufficio, nella sentenza” e che “In ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’articolo 91, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata[19]

In proposito, la giurisprudenza di legittimità ha elaborato alcuni criteri per il riconoscimento della temerarietà della lite, affermando che “oltre alla soccombenza totale e non parziale, la condanna per responsabilità aggravata postula che l’istante deduca e dimostri la concreta ed effettiva esistenza di un danno in conseguenza del comportamento processuale della controparte, nonché la ricorrenza, in detto comportamento, del dolo o della colpa grave[20].

Per consentire al giudice l’accertamento complessivo della soccombenza, l’istanza di condanna ai sensi dell’articolo 96 c.p.c. deve contenere una prospettazione della temerarietà della lite riferita a tutti i motivi del ricorso[21].

In merito al danno risarcibile, inoltre, la Suprema Corte ha più volte ritenuto inammissibile la domanda di risarcimento dei danni cagionati nei pregressi gradi di giudizio, dovendo essa farsi “valere nel giudizio in cui i danni dedotti sono stati causati e non in sede di ricorso per cassazione, rientrando il relativo potere nella competenza funzionale ed inderogabile di quel giudice.

Infine, relativamente all’elemento soggettivo, il ricorso può considerarsi temerario “solo allorquando, oltre ad essere erroneo in diritto, sia tale da palesare la consapevolezza della non spettanza del diritto fatto valere, o evidenzi un grado di imprudenza, imperizia o negligenza accentuatamente anormali[22].

 

6.      La responsabilità aggravata ed il risarcimento del danno

La giurisprudenza della Cassazione ha espresso analoghe considerazioni anche in ordine ai requisiti che integrano la responsabilità aggravata di cui al terzo comma dell’articolo 96 c.p.c.. Più precisamente, il danno risarcibile è, anche in questo caso, limitato al grado di giudizio considerato[23]. La mala fede o la colpa grave sono altresì richieste nelle ipotesi di cui all’articolo 96, terzo comma, c.p.c. “non solo perché sono inserite in un articolo destinato a disciplinare la responsabilità aggravata, ma anche perché agire in giudizio per far valere una pretesa che alla fine si rileva infondata non costituisce condotta di per sé rimproverabile[24] e, a maggior ragione, quella di cui al comma 3 attesa la sua natura sanzionatoria[25].

Al fine di rispettare sostanzialmente il principio di soccombenza e di tenere indenne la parte vittoriosa da tutte le spese sostenute nel giudizio, compresi i c.d. oneri accessori, il nuovo comma 2-ter dell’articolo 15 specifica che le spese di giudizio comprendono - oltre al contributo unificato, agli onorari e ai diritti del difensore, alle spese generali e agli esborsi sostenuti - anche i contributi previdenziali e l’imposta sul valore aggiunto eventualmente dovuti.

 

7.      Sospensione dell’atto impugnato e spese processuali

Il nuovo comma 2-quater risponde all’esigenza di evitare un uso strumentale del contenzioso e, in particolare, un abuso delle richieste di tutela cautelare. La predetta disposizione prevede, infatti, che la statuizione sulle spese di lite debba essere contenuta anche nell’ordinanza (non impugnabile) con cui il giudice decide sull’istanza di sospensione dell’atto impugnato o di sospensione dell’esecutività provvisoria della sentenza impugnata con appello o con ricorso per cassazione ai sensi, rispettivamente, degli articoli 47, 52 e 62-bis.

Si ritiene che la non impugnabilità dell’ordinanza in esame non costituisca, comunque, un limite alla tutela della parte eventualmente dichiarata soccombente in ordine alle spese della fase cautelare.

Il giudice conserva, invero, la possibilità di disporre diversamente in ordine alle spese della fase cautelare nel provvedimento adottato all’esito del giudizio. In questo caso, la sentenza che definisce il giudizio assorbe l’ordinanza sia sotto il profilo cautelare che nella disposizione sulle spese di lite. La parte che intenda dolersi della condanna alle spese della fase cautelare potrà, quindi, impugnare la sentenza nel relativo capo.

Ove il giudice non provveda in sentenza sulle spese di lite della fase cautelare, l’ordinanza adottata in detta fase sarà assorbita dalla sentenza solo nella parte che ha deciso sull’istanza di sospensione, mentre conserverà la propria efficacia nel capo che dispone sulle spese del giudizio cautelare. La parte che intenda dolersi della condanna alla rifusione delle spese del giudizio cautelare – contenuta nella relativa ordinanza – potrà dunque, in tal caso, impugnare la sentenza in quanto ha omesso di disporre diversamente in merito alle spese della fase cautelare.

 

7.1 Questione di legittimità alla Consulta sulle spese di giudizio

A sollevare la questione di costituzionalità per le neo introdotte spese di giudizio per la fase cautelare è la Ctp di Treviso che, con ordinanza 99 del 2016 (Gazzetta Ufficiale 21 del 25 maggio 2016) ha posto al vaglio della Consulta la legittimità della nuova previsione normativa, ravvisando alcuni profili di incostituzionalità in questa nuova previsione. Innanzitutto secondo il collegio, la disposizione potrebbe essere viziata dall’eccesso di delega. La riforma del processo tributario è stata attuata secondo le previsioni contenute nella legge delega (23/2014), la quale, all’articolo 10 sulle spese di giudizio, testualmente richiedeva «l’individuazione di criteri di maggior rigore nell’applicazione del principio della soccombenza ai fini del carico delle spese del giudizio, con conseguente limitazione del potere discrezionale del Giudice di disporre la compensazione delle spese in casi diversi dalla soccombenza reciprocaIn attuazione di tale principio, la nuova norma prevede più stringenti limiti alla compensazione, richiedendo cioè che ricorrano gravi ed eccezionali ragioni che devono essere espressamente motivate. Tuttavia, la Ctp di Treviso ha rilevato che nella legge delega non è fatto alcun cenno alla fase cautelare, con la conseguenza che l’introduzione di tale disposizione vada oltre le specifiche richieste del legislatore delegante.
A ciò si aggiunga che la decisione cautelare non è impugnabile, nemmeno per la parte riferita alle spese: la nuova disposizione, quindi, non può certo aver rafforzato la tutela giurisdizionale del contribuente e pertanto anche “indirettamente” non pare rispondere ai criteri della legge delega.

Il Collegio rimettente ha infine osservato che la condanna alle spese della fase cautelare non può essere immediatamente esecutiva, cosicché la sua introduzione nel processo tributario, tanto meno può avere un effetto deterrente sulla proposizione dell’istanza stessa. Va rilevato, infatti che talvolta la richiesta di sospensione è “tentata” a prescindere dalla contemporanea sussistenza di entrambi i requisiti necessari (fumus boni iuris e periculum in mora), con l’unico fine di evitare l’esborso di denaro in attesa della decisione di merito. Sul punto, la Ctp di Treviso ha rilevato che se le spese liquidate nell’ordinanza di sospensione non sono immediatamente dovute, perché di fatto sono rinviate all’esito del giudizio di merito e la condanna nella fase cautelare potrebbe risultare irrilevante, in quanto i giudici con la decisione di merito potrebbero giungere a differenti conclusioni. Ne consegue così, secondo l’ordinanza di rimessione, che pur individuando l’intento del legislatore nella riduzione del numero di richieste cautelari, limitandole solo a quelle realmente fondate (ossia con i requisiti previsti), è verosimile che l’introduzione delle spese non porterà ad alcun risultato in tal senso. Da qui i dubbi di costituzionalità.

 

8.      Liquidazione delle spese processuali.

Il nuovo comma 2-quinquies dell’articolo 15 conferma il principio recato dalla precedente formulazione del comma 2, secondo cui i compensi spettanti agli incaricati dell’assistenza tecnica sono liquidati in base ai parametri previsti per le relative prestazioni professionali. Per i soggetti autorizzati all’assistenza tecnica dal Ministero dell’economia e delle finanze si applica, invece, la disciplina degli onorari, delle indennità e dei criteri di rimborso delle spese per le prestazioni professionali dei dottori commercialisti e degli esperti contabili[26].

Il comma 2-sexies dell’articolo 15 - nel quale è stato trasfuso, con alcune modifiche, il precedente comma 2-bis del medesimo articolo - disciplina la liquidazione delle spese a favore dell’Agenzia delle entrate, dell’Agenzia delle dogane e dei monopoli, degli altri enti impositori, degli agenti e dei concessionari privati della riscossione, per il caso in cui essi siano assistiti da propri dipendenti[27].

In particolare, si prevede l’applicazione della disciplina relativa ai compensi per la professione forense - attualmente contemplata dal decreto del Ministro della giustizia 10 marzo 2014, n. 55 - con la riduzione del 20 per cento[28].

 

9.      Riscossione a seguito di condanna.

Tramite una disposizione di favore per il contribuente, già presente nella precedente formulazione del comma 2-bis, il secondo periodo del comma 2- sexies prevede che la riscossione delle somme liquidate a favore di tutti gli enti impositori, nonché degli agenti e concessionari della riscossione avviene, mediante iscrizione a ruolo, soltanto dopo il passaggio in giudicato della sentenza.

Nell’ipotesi di una sentenza che condanni, invece, l’Amministrazione finanziaria al pagamento delle spese di lite, si applica la disciplina di cui all’articolo 69, comma 1, primo periodo, del decreto n. 546, in vigore a far data dal 1° giugno 2016, in base alla quale “Le sentenze di condanna al pagamento di somme in favore del contribuente e quelle emesse su ricorso avverso gli atti relativi alle operazioni catastali indicate nell’articolo 2, comma 2, sono immediatamente esecutive[29].

In caso di mancata esecuzione, il contribuente ha la possibilità di promuovere giudizio di ottemperanza ai sensi dell’articolo 70 del decreto n. 546, che – in ordine alle spese di giudizio e indipendentemente dal relativo importo – compete alla commissione tributaria in composizione monocratica.

 

10.  Spese processuali a seguito di mediazione e conciliazione

Con le disposizioni dei commi 2-septies e 2-octies, il legislatore ha disciplinato le spese riferite alle controversie oggetto di reclamo/mediazione e di conciliazione giudiziale, con l’intento di incentivare l’utilizzo dei due istituti, potenziandone l’effetto deflattivo.

Nel comma 2-septies, anche per una maggiore sistematicità del testo di legge, è stata riportata la disposizione già contenuta nel precedente testo dell’articolo 17-bis, comma 10, del decreto n. 546, secondo cui, nel caso di controversie proposte avverso atti reclamabili, le spese di giudizio liquidate in sentenza sono maggiorate del 50 per cento.

La disposizione ha riguardo alle spese di giudizio di cui al comma 1 dell’articolo 15 in commento, ossia alle spese di lite che sono poste a carico della parte interamente soccombente, “con la duplice finalità di incentivare la mediazione, oggi estesa a tutti gli enti impositori, e di riconoscere alla parte vittoriosa i maggiori oneri sostenuti nella fase procedimentale obbligatoria ante causam”.

Non è stato, invece, riprodotto il secondo periodo del comma 10 del precedente articolo 17-bis, che, ai fini della compensazione delle spese, faceva riferimento ai “giusti motivi, esplicitamente indicati nella motivazione, che hanno indotto la parte soccombente a disattendere la proposta di mediazione”.

Ciò nondimeno, resta salva l’applicabilità delle disposizioni recate dal comma 2 dell’articolo 15 in esame; pertanto, fuori dai casi di soccombenza reciproca, la compensazione delle spese, comprese quelle della fase di reclamo/mediazione, può essere disposta solo qualora sussistano e siano espressamente dedotte in motivazione specifiche circostanze o aspetti della controversia, assistite dai requisiti della gravità e della eccezionalità, tra le quali potranno rilevare anche considerazioni in ordine ai motivi che abbiano indotto la parte soccombente a disattendere una eventuale proposta di mediazione.

Il comma 2-octies prevede, infine, che le spese del processo sono interamente addebitate alla parte che ha rifiutato la proposta di conciliazione, ove il riconoscimento delle pretese risulti inferiore al contenuto dell’accordo proposto[30].

In caso di conclusione della conciliazione le spese del processo saranno, invece, dichiarate compensate, salva diversa determinazione delle parti nell’accordo o nel processo verbale di conciliazione.

In definitiva, se si conclude la conciliazione, le spese vengono compensate, salvo diverso accordo tra le parti. Se, invece, non si addiviene a conciliazione, possono verificarsi le seguenti ipotesi:

1) una parte risulta totalmente soccombente e alla stessa sono addebitate, secondo il principio generale, le spese di lite, salvo il caso in cui sussistano gravi ed eccezionali ragioni;

2) c’è soccombenza reciproca e la sentenza ha rideterminato la pretesa per un ammontare inferiore al contenuto della proposta conciliativa, rifiutata da una delle parti per un giustificato motivo, nel qual caso le spese del processo sono compensate;

3) c’è soccombenza reciproca e la sentenza ha rideterminato la pretesa per un ammontare inferiore al contenuto della proposta, rifiutata da una delle parti senza un giustificato motivo, nel qual caso il giudice pone le spese dell’intero processo a suo carico;

4) c’è soccombenza reciproca e la sentenza ha rideterminato la pretesa per un ammontare uguale o superiore al contenuto della proposta, nel qual caso il giudice dispone la compensazione delle spese.

 

10.1 La condanna alle spese della parte soccombente che rifiuta la proposta di mediazione.

Nella valutazione dei possibili esiti della controversia, anche in ordine ai costi complessivi della stessa, non va trascurato quanto previsto al comma 2-septies[31], ovvero la maggiorazione del 50% delle spese di giudizio a carico della parte soccombente nelle liti reclamabili. Seri dubbi si pongono in ordine alla legittimità di tale “penalizzazione”, attesa l’obbligatorietà della fase di mediazione, e “l’incentivo” a definire, fosse anche con la sola riduzione delle sanzioni.

 

10.2 La condanna alle spese della parte che rifiuta la proposta di conciliazione.

Con riferimento a quanto previsto al punto 3) che precede, la disposizione introdotta dal D.Lgs. n. 156/2015[32] si manifesta come norma speciale rispetto a quella, largamente similare, del processo civile ex art. 91 cpc; ma non è solo la “residenza” normativa che distingue detta disposizione dagli artt. 88 e 89 cpc[33], poiché solo queste ultime due norme aprono la via a condanne che possono essere rivolte alla parte totalmente vittoriosa; infatti la norma processuale tributaria, che pure costituisce una deroga al principio della soccombenza e, precisamente, all’obbligo di compensazione delle spese in caso di soccombenza reciproca, riguarda un tipo di condanna che può essere inflitta alla parte parzialmente vittoriosa, finanche nel caso in cui tale parzialità sia larga e rilevante; infatti l’art. 15 prescinde dalla soccombenza prevalente poiché, a mente dei contenuti della stessa, può subìre la condanna al pagamento delle spese di lite la parte che rifiuta la proposta conciliativa senza un giustificato motivo, pur se poi quella stessa parte viene poi riconosciuta dalla sentenza in una posizione di larga ragione e quindi in una posizione di residuale soccombenza.

 

11.  Compensazione delle spese e cessazione della materia del contendere

Coerentemente con il nuovo assetto delle spese di lite e con il rafforzamento del principio di soccombenza, l’articolo 9, comma 1, lettera q), del decreto di riforma, ha modificato l’articolo 46 del decreto n. 546, che reca la disciplina dell’estinzione del giudizio per cessazione della materia del contendere.

Con particolare riguardo al comma 3 dell’articolo 46, la previsione della compensazione delle spese di lite è stata limitata alle ipotesi di cessazione della materia del contendere per definizione delle pendenze tributarie “previste dalla legge” (ad esempio, a seguito di condono). In tal modo, il legislatore, come emerge dalla relazione illustrativa, ha recepito i principi affermati nella sentenza 12 luglio 2005, n. 274, con cui la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 46, comma 3, laddove prevedeva che le spese del giudizio estinto restassero a carico della parte che le aveva anticipate in ogni caso di cessazione della materia del contendere[34].

 

12.  Conclusioni

L’applicazione dei nuovi criteri qui esaminati ha avuto effetti immediati, con condanne alle spese che, tuttavia, andranno esaminate accuratamente, per verificarne i criteri di determinazione in ordine ai relativi presupposti. Il rischio, in caso di liquidazione forfettaria ed incontrollata, è che il tutto si traduca in una ulteriore gravosa “sanzione” per il contribuente ricorrente, con un sempre più evidente inasprimento complessivo delle conseguenze per chi “si avventura” nel processo tributario senza una piena convinzione delle proprie ragioni e senza una piena competenza della materia. All’aggravarsi delle ipotesi di condanna alle spese non vanno, infine, dimenticate le ipotesi di aumento e raddoppio del contributo unificato, conseguenti anche gli esiti negativi, in particolare il rigetto integrale del ricorso in appello.[35], [36]

 

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[1] Università di Roma La Sapienza Facoltà di Giurisprudenza Cultore di Diritto Tributario – Dottore  Commercialista in Pescara.
[2] in vigore dal 01.01.2016
[3] E quindi lo scopo che viene perseguito da sempre: la riduzione del contenzioso fiscale.
[4] Il che potrà avere senso solo ove la condanna alle spese sia applicata con gli stessi criteri, al ricorrente ed all’ente impositore.
[5] Cfr., tra le altre, Cassazione 901/2012
[6] Cass. 21 gennaio 2015, n. 930
[7] Cass. 13 gennaio 2015, n. 373
[8] Si evidenzia al riguardo che l’articolo 92 c.p.c. , al secondo comma, individua le ragioni gravi ed eccezionali nella “assoluta novità della questione trattata o mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti”.
[9] così Cass. ord. n. 22381/09 e n. 21684/13
[10] Cass. 30 settembre 2015, n. 19520
[11] Ai fini della compensazione nel caso di soccombenza reciproca occorre, inoltre, aver riguardo all’oggetto della lite nel suo complesso, poiché “nessuna norma prevede, per il caso di soccombenza reciproca delle parti, un criterio di valutazione della prevalenza della soccombenza dell’una o dell’altra
basato sul numero delle domande accolte o respinte per ciascuna di esse (così Cass. 24 gennaio 2013, n.
1703)” (Cass. 21 gennaio 2015, n. 930).
[12] Corte Cassazione n. 8413 pubblicata il 27.4.2016: Nessuna condanna alle spese di lite per chi perde in giudizio contro la Pubblica Amministrazione che si difende senza avvocato.
[13] Corte di Cassazione, Sez. II, sentenza n. 12625, pubblicata il 17 giugno 2016: E’ viziata la sentenza che nulla dispone in merito alle spese di giudizio Qualora il difensore della parte, come comunemente avviene, nel proprio atto tra le conclusioni chieda la condanna di controparte al pagamento delle spese del procedimento civile, il giudice deve necessariamente provvedere in merito alla richiesta e, qualora intenda compensarle tra le parti deve darne adeguata motivazione, tale evenienza non può, infatti, ritenersi desumibile dalla omessa pronuncia sul punto.
[14] Processo amministrativo - L'appello contro la condanna alle spese di giudizio: i paletti del Consiglio di Stato - La manifesta abnormità nei principi sanciti dalla Terza Sezione nella sentenza del 31.3.2016 n. 1262.
In materia di spese, vige la regola generale della condanna alle spese del giudizio della parte soccombente prevista dall'art. 91 del codice di procedura civile, applicabile nel processo amministrativo per espresso rinvio dell’art. 26, comma 1, c.p.a..
Inoltre anche qualora, sopravvenga nel corso del giudizio il comportamento o il provvedimento integralmente satisfattivo delle ragioni dell’istante, con conseguente dichiarazione di cessazione della materia del contendere, il giudice, in mancanza di un espresso accordo delle parti sulla compensazione delle spese, deve comunque  verificare, alla stregua del criterio della soccombenza virtuale, le ragioni della parte che abbia visto soddisfatta la sua pretesa solo dopo l'introduzione del giudizio.
La giurisprudenza consolidata ritiene che la sindacabilità in appello della condanna alle spese comminata in primo grado, in quanto espressiva della discrezionalità di cui dispone il giudice in ogni fase del processo, è limitata solo all’ipotesi in cui venga modificata la decisione principale, salvo la manifesta abnormità.
Sulla base di tale premessa la Terza Sezione del Consiglio di Stato nella sentenza del 31.3.2016 n. 1262 ha affermato che sussiste quest’ultima evenienza di “abnormità” della decisione, sicché la liquidazione delle spese può ritenersi illogica, se ed in quanto l'ammontare delle singole partite computate (spese per atti del procedimento, onorari e diritti) sia sproporzionato rispetto alle spese documentate o in relazione all’impegno professionale profuso, secondo un criterio di proporzionalità e ragionevolezza che si desume dall’art. 2233, comma secondo, c.c..
Quanto alla misura delle spese, vi è una prassi consolidata del giudice amministrativo di procedere alla liquidazione di spese e onorari in misura forfetaria, senza pedissequamente attenersi ai limiti minimi/massimi della tariffa professionale, in applicazione di criteri di equità solitamente non esplicitati in sentenza (prassi cui si è adeguata anche quella degli avvocati di non allegare la nota degli onorari e delle spese con riferimento alle singole voci della tabella).
In tal caso, precisano i giudici di Palazzo Spada, solitamente i criteri di liquidazione vengono rinvenuti non tanto nel raffronto fra la tariffa professionale e il valore economico della causa, quanto piuttosto in circostanze eterogenee, intrinseche all'intero giudizio, variabili di volta in volta, quali ad esempio la maggiore o minore complessità delle questioni affrontate, l'applicazione di precetti giurisprudenziali consolidati, la natura della pretesa di cui si chiede l'affermazione,  il comportamento tenuto dall'amministrazione nel caso concreto. (Fonte: Consiglio di Stato Sez. 3a sent. del 31.3.2016 n. 1262).
[15] Cass. 13 luglio 2015, n. 14546; Cass. 11 luglio 2014, n. 16037
[16] Cass. 17 settembre 2015, n. 18276
[17] Cass. 13 luglio 2015, n. 14546; Cass. 20 ottobre 2010, n. 21521
[18] cfr. anche Cass. 17 settembre 2015, n. 18276
[19] Non è invece applicabile al processo tributario il secondo comma dell’articolo 96 c.p.c., per il quale “Il giudice che accerta l’inesistenza del diritto per cui è stato eseguito un provvedimento cautelare, o trascritta domanda giudiziale, o iscritta ipoteca giudiziale, oppure iniziata o compiuta l’esecuzione forzata, su istanza della parte danneggiata condanna al risarcimento dei danni l’attore o il creditore procedente, che ha agito senza la normale prudenza. La liquidazione dei danni è fatta a norma del comma precedente”.
[20] Cass. 5 marzo 2015, n. 4443
[21] Cass. 13 luglio 2015, n. 14611
[22] Cass. 13 luglio 2015, n. 14611
[23] Cass. 4 febbraio 2015, n. 1952; Cass., SS.UU., 3 giugno 2013, n. 13899
[24] Cass. 30/11/2012 n. 21570 Ord.
[25] Cass. 12 maggio 2015, n. 9581; Cass. 11 febbraio 2014, n. 3003
[26] A seguito dell’entrata in vigore del D.L. 24 gennaio 2012 n. 1 (cd “Decreto liberalizzazioni”), le Tariffe delle professioni regolamentate nel sistema ordinistico sono state abrogate con decorrenza dal 25 gennaio 2012. Con  D.M. n. 140 del 20.07.2012 è stato emanato il Regolamento recante la determinazione dei parametri per la liquidazione da parte di un organo giurisdizionale dei compensi per le professioni regolarmente vigilate dal Ministero della giustizia, ai sensi dell'articolo 9 del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27.
[27] Cfr. nota n. 12
[28] I DM emanati:
·         140/2012 per i dottori commercialisti e le categorie professionali ex art. 12 comma 4 del DLgs 546/92 iscritte negli elenchi del Ministero dell'Economia e delle Finanze;
·         46/2013 per i consulenti del lavoro;
·         55/2014 per gli avvocati.
Dall'esame della normativa, i compensi sono determinati in base agli accordi tra la parte e il proprio difensore ovvero, in difetto, in base ai parametri dei sopra riferiti DM.
Si può quindi dedurre che l'omesso deposito della nota spese non invalida la liquidazione giudiziale. Infatti, il giudice può ben determinare sia gli onorari sulla base dei parametri degli specifici DM, sia le spese - ad esempio il contributo unificato - desumendole dagli atti del processo.
E' comunque opportuno - solo per evitare successive divergenze - che il difensore, oltre alla procura alle liti, ottenga dal cliente un formale mandato che individui la prestazione professionale in relazione ai diversi stadi procedimentali con l'accordo sul compenso spettante.
In assenza di tariffe professionali, forse è anche inutile redigere la nota spese con indicazione in modo distinto e specifico gli onorari e le spese, come prevede l'articolo 75 delle disposizioni attuative del codice di procedura civile.
[29] La disposizione è, tuttavia, subordinata all’emissione di un regolamento attuativo, allo stato non ancora emanato.
[30] In merito alla normativa precedente, cfr. punto 2.7 della circolare 31 marzo 2010, n. 17/E, ove si è ritenuta applicabile anche al contenzioso tributario la disposizione di cui all’articolo 91 c.p.c., evidenziando che “gli Uffici, nei casi in cui il contribuente abbia rifiutato la proposta di conciliazione giudiziale formulata, anche a seguito di tentativo di conciliazione esperito d’ufficio dal giudice, avanzeranno richiesta di condanna alle spese subordinandola alla circostanza che la Commissione tributaria decida in senso conforme alla proposta di conciliazione ovvero in termini ancora più favorevoli all’Ufficio”.
 
[31] Art. 15 comma 2-septies - Nelle controversie di cui all'articolo 17-bis le spese di giudizio di cui al comma 1 sono maggiorate del 50 per cento a titolo di rimborso delle maggiori spese del procedimento.
 
[32] Art. 15 comma 2-octies. Qualora una delle parti abbia formulato una proposta conciliativa, non accettata dall'altra parte senza giustificato motivo, restano a carico di quest'ultima le spese del processo ove il riconoscimento delle sue pretese risulti inferiore al contenuto della proposta ad essa effettuata. Se e' intervenuta conciliazione le spese si intendono compensate, salvo che le parti stesse abbiano diversamente convenuto nel processo verbale di conciliazione.
 
[33] Condanna alle spese della parte che rifiuta la proposta di conciliazione.
Con riferimento a quanto previsto al comma 2-octies art. 15 d.lgs. 546/92, la disposizione introdotta dal D.Lgs. n. 156/2015 si manifesta come norma speciale rispetto a quella, largamente similare, del processo civile ex art. 91 cpc; ma non è solo la “residenza” normativa che distingue detta disposizione dagli artt. 88 e 89 cpc, poiché solo queste ultime due norme aprono la via a condanne che possono essere rivolte alla parte totalmente vittoriosa; infatti la norma processuale tributaria, che pure costituisce una deroga al principio della soccombenza e, precisamente, all’obbligo di compensazione delle spese in caso di soccombenza reciproca, riguarda un tipo di condanna che può essere inflitta alla parte parzialmente vittoriosa, finanche nel caso in cui tale parzialità sia larga e rilevante; infatti l’art. 15 prescinde dalla soccombenza prevalente poiché, a mente dei contenuti della stessa, può subìre la condanna al pagamento delle spese di lite la parte che rifiuta la proposta conciliativa senza un giustificato motivo, pur se poi quella stessa parte viene poi riconosciuta dalla sentenza in una posizione di larga ragione e quindi in una posizione di residuale soccombenza.
[34] Nella sentenza n. 274 del 2005, la Corte costituzionale ha, in particolare, osservato che “La compensazione ope legis delle spese nel caso di cessazione della materia del contendere” rende inoperante il principio statuito dall’articolo 15 del decreto n. 546, secondo cui le spese di giudizio fanno carico al soccombente. Pertanto, tale compensazione “si traduce … in un ingiustificato privilegio per la parte che pone in essere un comportamento (il ritiro dell’atto, nel caso dell’amministrazione, o l’acquiescenza alla pretesa tributaria, nel caso del contribuente) di regola determinato dal riconoscimento della fondatezza delle altrui ragioni, e, corrispondentemente, in un del pari ingiustificato
pregiudizio per la controparte, specie quella privata, obbligata ad avvalersi, nella nuova disciplina del processo tributario, dell’assistenza tecnica di un difensore e, quindi, costretta a ricorrere alla mediazione
(onerosa) di un professionista abilitato alla difesa in giudizio.”.
[35] Se il ricorso del contribuente viene integralmente rigettato, via al raddoppio del contributo unificato. Così si è espressa la Corte di Cassazione con la sentenza n. 19432 del 2015.
Il fatto trae origine dal contenzioso instaurato tra l’Agenzia delle Entrate ed una S.r.l.. La Commissione tributaria regionale in parziale accoglimento del ricorso in appello proposto da una S.p.a., ha confermato la decisione di primo grado quanto alla riconosciuta legittimità dell'avviso di accertamento con il quale era stato rideterminato il maggior reddito d'impresa ai fini IVA, IRPEG ed IRAP per l'anno 2002, con eccezione della modesta differenza riscontrata tra i dati della contabilità di magazzino e le giacenze verificate a campione, che doveva giustificarsi in considerazione della "fisiologica e ordinaria dinamica gestionale del magazzino". La CTR rilevava che la società contribuente non aveva supportato con idonee prove le allegazioni difensive secondo cui era ordinaria prassi per i clienti richiedere un finanziamento maggiore del prezzo di acquisto dei veicoli, e che costituiva evasione d'imposta la anomala intestazione dei veicoli "dalla casa madre al concessionario". Al contrario, le pretese fiscali risultavano supportate dalla prova del maggiore prezzo di vendita rispetto a quello fatturato ai clienti, come emergeva dalle risposte fornite da quest'ultimi ai questionari inviati dall'Ufficio finanziario.
Contro la sentenza, proponeva ricorso per cassazione la società, in particolare deducendo vizi di motivazione, nonché vizi per errores in procedendo ed in judicando.
La Corte di Cassazione ha respinto il ricorso della società contribuente.
Orbene, al di là delle ragioni di rigetto del ricorso, tutte fondate sulla inammissibilità o sulla infondatezza delle questioni sollevate dalla contribuente, ciò che rileva nella decisione degli Ermellini è l’affermazione secondo cui sussistono, in questo caso, i presupposti per l’applicazione della norma del Testo Unico sulle spese di giustizia che dispone l'obbligo del versamento per il ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato nel caso in cui la sua impugnazione sia stata integralmente rigettata. Il che equivale a dire, in altri termini, che il rischio per il contribuente, in caso di rigetto integrale del ricorso, non è solo quello di vedersi condannato alle spese, ma anche di essere tenuto a versare un importo pari al doppio del contributo unificato, che, nelle controversia tributarie, può anche raggiungere importi di per sé rilevanti.
In sostanza, la Cassazione tributaria recepisce, nel caso in esame, gli insegnamenti delle Sezioni Unite che, sul punto, hanno affermato che in tema di impugnazione, l'obbligo di versamento, per il ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato nel caso in cui la sua impugnazione sia stata integralmente rigettata, si applica ai procedimenti iniziati in data successiva al 30 gennaio 2013, dovendosi aver riguardo, secondo i principi generali in tema di litispendenza, al momento in cui la notifica del ricorso si è perfezionata, con la ricezione dell'atto da parte del destinatario, e non a quello in cui la notifica è stata richiesta all'ufficiale giudiziario o l'atto è stato spedito a mezzo del servizio postale.
Da qui, dunque, il rigetto del ricorso con condanna alle spese ed al raddoppio del contributo unificato.
Di rilievo le conseguenze pratiche della sentenza. Ne consegue che il rischio per il contribuente, in caso di rigetto integrale del ricorso, non è solo quello di vedersi condannato alle spese, ma anche di essere tenuto a versare un importo pari al doppio del contributo unificato, che, nelle controversie tributarie, può anche raggiungere importi di per sé rilevanti.
 
[36] La Corte costituzionale, con la sentenza 120, depositata IL 02 giugno 2016, ha giudicato in parte inammissibili e in parte infondate le questioni sollevate dalla Corte d’appello di Firenze. In particolare, quest’ultima sosteneva che la norma, applicabile anche quando l’appello è dichiarato improcedibile sulla base dell’articolo 348, comma 2 del Codice di procedura civile per mancata comparizione dell’appellante alla prima udienza e a quella successiva di cui gli è stata data comunicazione, realizzerebbe un’ingiustificata disparità di trattamento, in violazione dell’articolo 3 della Costituzione, rispetto all’ipotesi di cancellazione della causa dal ruolo con conseguente estinzione del processo (articoli 181 e 309 del Codice di procedura). Per la Consulta però le situazioni messe a confronto non sono omogenee e non si possono pertanto paragonare, nonostante il dato comune della mancata comparizione. Anzitutto, sottolinea la sentenza , va sottolineato come il regime del raddoppio del contributo unificato accomuna tutti i casi di esito negativo dell’appello, essendo previsto per le ipotesi del rigetto integrale o della definizione sfavorevole all’appellante. In questa categoria rientra l’improcedibilità inflitta dall’articolo 348, comma 2, ma non l’ipotesi di cancellazione della causa dal ruolo ed estinzione del processo. Inoltre, come ricordato dalla Cassazione, la norma censurata risponde all’opportunità di scoraggiare le impugnazioni dilatorie o pretestuose. Una ratio che invece non si può individuare nella fattispecie dell’articolo 181, che prescinde dalla utilizzazione impropria dell’impugnazione, «ma riguarda soltanto l’omologa condotta omissiva delle parti – alla luce dell’orientamento assolutamente prevalente nella giurisprudenza di legittimità, secondo cui la mancata presenza alla prima udienza ed alla successiva dell’appellante e dell’appellato costituito determina la cancellazione della causa dal ruolo e l’estinzione del processo (anziché l’improcedibilità dell’appello) – con la conseguenza che la funzione deterrente riconosciuta alla norma censurata non avrebbe modo di esprimersi». Se, sempre in base alla giurisprudenza della Cassazione, poi il raddoppio del contributo unificato è previsto per il rimborso dei costi del vano funzionamento dell’apparato giudiziario o dell’inutile erogazione delle limitate risorse a sua disposizione, va sottolineato come questo dispendio di energie processuali non caratterizza gli articoli 181 e 309. Si tratta infatti di fattispecie nelle quali le parti coinvolte dimostrano, spesso di comune accordo, il loro disinteresse alla prosecuzione del giudizio.