Riforma
del processo tributario
Decreto
Legislativo n. 156 del 24.09.2015
Le spese di giudizio nel processo tributario
Analisi della disciplina delle spese
processuali, inasprita a seguito dell’entrata in vigore del D.Lgs. n.
156 del 24 settembre 2015, nella ormai costante ricerca di strumenti deterrenti
del contenzioso ed incentivanti all’utilizzo delle forme definitorie. Ipotesi
di profili di incostituzionalità.
di Giuseppe Aliano[1]
Sommario
- Premessa
- Il
nuovo art. 15 del D.Lgs. 546/92 in vigore dal 01.01.2016
- Le spese di giudizio – criteri – esigenze di
modifica - scopi
- La soccombenza
- Motivazione in ordine alla
compensazione delle spese
- Lite temeraria e
risarcimento del danno
- La responsabilità
aggravata ed il risarcimento del danno
- Sospensione dell’atto
impugnato e spese processuali
7.1 Questione di legittimità alla
Consulta sulle spese di giudizio
- Liquidazione delle spese
processuali.
- Riscossione a seguito di
condanna.
- Spese processuali a
seguito di mediazione e conciliazione
10.1 . La condanna
alle spese della parte soccombente che rifiuta la proposta di mediazione
10.2
La condanna alle spese della
parte che rifiuta la proposta di conciliazione
- Compensazione delle spese
e cessazione della materia del contendere
- Conclusioni
Premessa
Tutte
le “riforme” e le disposizioni di legge degli ultimi anni sono state
caratterizzate dalla evidente ricerca, da parte del Legislatore, di mezzi di
natura “deterrente” all’utilizzo generalizzato del contenzioso tributario, con
l’introduzione di nuove forme “incentivanti” di definizione, peraltro
obbligatorie in presenza di determinati presupposti (mediazione), e con
estensione, per altre già esistenti, dei margini di applicabilità
(conciliazione giudiziale), la cui mancata applicazione o adesione prevede
“penalizzazioni”, in alcuni casi con maggiorazione di spese processuali, ed in
altri del contributo unificato.
Dunque
un ipotizzabile aumento dei costi di difesa, di cui bisogna tener conto nella
valutazione dei probabili esiti della lite e nelle decisioni da assumere in
tali contesti.
1. La parte soccombente è condannata
a rimborsare le spese del giudizio che sono liquidate con la sentenza.
2. Le spese di giudizio possono
essere compensate in tutto o in parte dalla commissione tributaria soltanto in
caso di soccombenza reciproca o qualora sussistano gravi ed eccezionali ragioni
che devono essere espressamente motivate.
2-bis. Si applicano le disposizioni
di cui all'articolo 96, commi primo e
terzo, del codice di procedura civile.
2-ter. Le spese di giudizio
comprendono, oltre al contributo unificato, gli onorari e i diritti del
difensore, le spese generali e gli esborsi sostenuti, oltre il contributo
previdenziale e l'imposta sul valore aggiunto, se dovuti.
2-quater. Con l'ordinanza che decide
sulle istanze cautelari la commissione provvede sulle spese della relativa fase. La
pronuncia sulle spese conserva efficacia anche dopo il provvedimento che
definisce il giudizio, salvo diversa statuizione espressa nella sentenza di
merito.
2-quinquies. I compensi agli incaricati
dell'assistenza tecnica sono liquidati sulla base dei parametri previsti per le
singole categorie professionali. Agli iscritti negli elenchi di cui
all'articolo 12, comma 4, si applicano i parametri previsti per i dottori commercialisti
e gli esperti contabili.
2-sexies. Nella liquidazione delle
spese a favore dell'ente impositore, dell'agente della riscossione e dei
soggetti iscritti nell'albo di cui all'articolo
53 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, se assistiti
da propri funzionari, si applicano le disposizioni per la liquidazione del
compenso spettante agli avvocati, con la riduzione del venti per cento
dell'importo complessivo ivi previsto. La riscossione avviene mediante
iscrizione a ruolo a titolo definitivo dopo il passaggio in giudicato della
sentenza.
2-septies. Nelle controversie di cui all'articolo
17-bis le spese di giudizio di cui al comma 1 sono maggiorate del 50 per cento
a titolo di rimborso delle maggiori spese del procedimento.
2-octies. Qualora una delle parti abbia formulato una
proposta conciliativa, non accettata dall'altra parte senza giustificato
motivo, restano a carico di quest'ultima le spese del processo ove il
riconoscimento delle sue pretese risulti inferiore al contenuto della proposta ad
essa effettuata. Se e' intervenuta conciliazione le spese si intendono
compensate, salvo che le parti stesse abbiano diversamente convenuto nel
processo verbale di conciliazione.
2. Le spese di giudizio – criteri – esigenze di modifica
- scopi
L’articolo
10, comma 1, lettera b), n. 10 della legge n. 23 del 2014 ha demandato al
legislatore delegato l’individuazione di criteri di maggior rigore nell’applicazione
del principio della soccombenza ai fini della condanna al rimborso delle spese
del giudizio.
In attuazione
del predetto mandato, l’articolo 9, comma 1, lettera f) del decreto di
riforma ha modificato l’articolo 15 del decreto n. 546 in materia di
spese di giudizio.
Il
principio ispiratore delle modifiche in tema di spese processuali risiede
nell’esigenza:
-
da un lato, di scoraggiare l’abuso dello strumento
processuale e favorire l’utilizzo degli strumenti deflattivi del contenzioso[3];
-
dall’altro, di evitare che la parte sia costretta a
sopportare gli oneri del giudizio nel caso di pretesa tributaria infondata[4].
In
ossequio agli indicati principi, con la modifica dell’articolo 15 del Dlgs
546/1992, è stato ribadito il criterio secondo cui le spese del giudizio
seguono la soccombenza, mentre la possibilità per la commissione tributaria di
compensare in tutto o in parte le spese - traslata al comma 2 della norma in
esame - è stata consentita solo “in caso di soccombenza reciproca o qualora
sussistano gravi ed eccezionali ragioni che devono essere espressamente
motivate”.
In
altri termini, la parte che risulti soccombente nel merito deve essere condannata a rimborsare le spese del giudizio liquidate
con la sentenza, salvo compensazione delle medesime che può essere disposta
solo qualora siano presenti le condizioni alternative della soccombenza
reciproca[5]
o della sussistenza, nel caso concreto, di gravi ed eccezionali ragioni,
espressamente motivate dal giudice nel provvedimento che decide sulle spese.
Ci
si è discostati, dunque, dal testo dell’articolo 92 cpc - richiamato nella
precedente formulazione - secondo cui la compensazione è possibile solo in caso
di assoluta novità della questione trattata o di mutamento della giurisprudenza
rispetto alle questioni dirimenti. Si può, tuttavia, ritenere che i criteri
offerti dal codice di procedura civile continuino a rilevare, in quanto
comunque integranti le eccezionali circostanze richieste dalla nuova
formulazione.
Con
l’introduzione nel corpo dell’articolo 15 del nuovo comma 2-bis, il
legislatore, per scoraggiare le “liti temerarie”, ha espressamente richiamato
l’applicabilità dell’articolo 96, primo e terzo comma, cpc, in tema di
responsabilità aggravata (i commi primo e terzo dell’articolo 96 cpc
dispongono, rispettivamente, che “Se risulta che la parte soccombente ha
agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, il giudice, su
istanza dell'altra parte, la condanna, oltre che alle spese, al risarcimento
dei danni, che liquida, anche d'ufficio, nella sentenza” e che “In ogni
caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’articolo 91, il giudice, anche
d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore
della controparte, di una somma equitativamente determinata”).
Con
i commi 2-septies e 2-octies, inoltre, il legislatore ha inteso
incentivare la risoluzione stragiudiziale delle controversie e il ricorso agli
strumenti deflattivi del contenzioso.
In particolare, il disposto del nuovo comma 2-septies ha confermato che le spese di giudizio sono maggiorate del 50% nelle controversie proposte avverso atti reclamabili ai sensi dell’articolo 17-bis del Dlgs 546/1992. La maggiorazione è prevista a titolo di rimborso delle spese sostenute per la fase del procedimento amministrativo, al fine di riconoscere alla parte vittoriosa i maggiori oneri sostenuti nella fase procedimentale obbligatoria ante causam.
In particolare, il disposto del nuovo comma 2-septies ha confermato che le spese di giudizio sono maggiorate del 50% nelle controversie proposte avverso atti reclamabili ai sensi dell’articolo 17-bis del Dlgs 546/1992. La maggiorazione è prevista a titolo di rimborso delle spese sostenute per la fase del procedimento amministrativo, al fine di riconoscere alla parte vittoriosa i maggiori oneri sostenuti nella fase procedimentale obbligatoria ante causam.
Il
comma 2-octies ha previsto che le spese del processo saranno interamente
addebitate alla parte che ha rifiutato la proposta di conciliazione ove il
riconoscimento delle pretese risulti inferiore al contenuto dell’accordo
proposto. In altri termini, se sussistevano le condizioni per la conclusione di
un accordo favorevole a entrambe le parti e una di esse ha rifiutato, senza
giustificato motivo, la proposta di conciliazione, il giudice addebiterà le
spese del processo alla parte che ha rifiutato l’accordo. In caso di
conclusione della conciliazione, invece, le spese del processo saranno
dichiarate compensate, salvo diverso accordo nel processo verbale di
conciliazione (nella disposizione in commento trova conferma quanto affermato
in via interpretativa dall’Agenzia delle Entrate al punto 2.7 della circolare
17/2010, ove si è ritenuta applicabile anche al contenzioso tributario la
disposizione di cui all’articolo 91 cpc e, per l’effetto, si è previsto che “gli
Uffici, nei casi in cui il contribuente abbia rifiutato la proposta di
conciliazione giudiziale formulata, anche a seguito di tentativo di
conciliazione esperito d’ufficio dal giudice, avanzeranno richiesta di condanna
alle spese subordinandola alla circostanza che la Commissione tributaria decida
in senso conforme alla proposta di conciliazione ovvero in termini ancora più
favorevoli all’Ufficio”).
3.
La soccombenza
In
particolare, è stato ribadito il principio secondo cui le spese del giudizio tributario
seguono la soccombenza, mentre la possibilità per la commissione tributaria di
compensare in tutto o in parte le medesime spese - traslata al comma 2 della
norma in esame – è consentita solo “in caso di soccombenza reciproca o qualora
sussistano gravi ed eccezionali ragioni, che devono essere espressamente
motivate”.
In altri
termini, in ossequio alla tutela del diritto di difesa di cui all’articolo 24
della Costituzione, la regola generale deve essere che “la parte interamente
vittoriosa non può essere condannata, nemmeno per una minima quota, al
pagamento delle spese processuali”[6].
Al fine di
porre le spese a carico della parte soccombente, la giurisprudenza di
legittimità ha precisato che “Il soccombente deve individuarsi facendo
ricorso al principio di causalità per cui, obbligata a rimborsare le spese processuali
è la parte che, con il comportamento tenuto fuori dal processo, ovvero dandovi
inizio o resistendo con modi e forme non previste dal diritto, abbia dato causa
al processo ovvero abbia contribuito al suo protrarsi”[7].
In deroga alla
predetta regola generale, il giudice può disporre la compensazione delle spese
del giudizio qualora alternativamente:
- vi sia
stata la soccombenza reciproca;
-
sussistano, nel caso concreto, gravi ed eccezionali ragioni, che devono essere
espressamente motivate dal giudice nel dispositivo sulle spese[8].
La nozione
di soccombenza reciproca, come precisato dalla Suprema Corte, “sottende -
anche in relazione al principio di causalità - una pluralità di domande
contrapposte, accolte o rigettate e che si siano trovate in cumulo nel medesimo
processo fra le stesse parti, ovvero anche l’accoglimento parziale dell’unica
domanda proposta, allorché essa sia stata articolata in più capi e ne siano
stati accolti uno od alcuni e rigettati gli altri, ovvero quando la parzialità dell’accoglimento
sia meramente quantitativa e riguardi una domanda articolata in un unico capo” [9],[10],[11],[12],[13],[14].
4.
Motivazione in ordine alla
compensazione delle spese
In ordine
alla sussistenza delle gravi ed eccezionali ragioni, la Corte di cassazione ha
chiarito che gli elementi apprezzati dal giudice di merito a sostegno del decisum
devono riguardare specifiche circostanze o aspetti della controversia
decisa[15] e devono essere soppesati “alla luce degli
imposti criteri della gravità (in relazione alle ripercussioni sull’esito del
processo o sul suo svolgimento) ed eccezionalità (che, diversamente, rimanda ad
una situazione tutt’altro che ordinaria in quanto caratterizzata da circostanze
assolutamente peculiari)”[16].
Non può,
pertanto, ritenersi soddisfatto l’obbligo motivazionale quando il giudice abbia
compensato le spese “per motivi di equità”, non altrimenti specificati[17], né quando
le argomentazioni del decidente si riferiscono genericamente alla “peculiarità”
della vicenda o alla “qualità delle parti” o anche alla “natura della
controversia”[18].
5.
Lite temeraria e risarcimento del
danno
Con
l’introduzione nel corpo dell’articolo 15 del nuovo comma 2-bis, il legislatore,
al fine di scoraggiare le c.d. liti temerarie, richiama espressamente l’applicabilità
dell’articolo 96, primo e terzo comma, c.p.c., in tema di condanna al
risarcimento del danno per responsabilità aggravata, che si aggiunge alla condanna
alla rifusione delle spese di lite.
I commi
primo e terzo dell’articolo 96 c.p.c. dispongono, rispettivamente, che “Se risulta
che la parte soccombente ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa
grave, il giudice, su istanza dell’altra parte, la condanna, oltre che alle
spese, al risarcimento dei danni, che liquida, anche d’ufficio, nella sentenza”
e che “In ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’articolo 91,
il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento,
a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata”[19]
In
proposito, la giurisprudenza di legittimità ha elaborato alcuni criteri per il
riconoscimento della temerarietà della lite, affermando che “oltre alla soccombenza
totale e non parziale, la condanna per responsabilità aggravata postula che
l’istante deduca e dimostri la concreta ed effettiva esistenza di un danno in
conseguenza del comportamento processuale della controparte, nonché la
ricorrenza, in detto comportamento, del dolo o della colpa grave”[20].
Per
consentire al giudice l’accertamento complessivo della soccombenza, l’istanza
di condanna ai sensi dell’articolo 96 c.p.c. deve contenere una prospettazione
della temerarietà della lite riferita a tutti i motivi del ricorso[21].
In merito
al danno risarcibile, inoltre, la Suprema Corte ha più volte ritenuto
inammissibile la domanda di risarcimento dei danni cagionati nei pregressi
gradi di giudizio, dovendo essa farsi “valere nel giudizio in cui i danni dedotti
sono stati causati e non in sede di ricorso per cassazione, rientrando il relativo
potere nella competenza funzionale ed inderogabile di quel giudice.
Infine,
relativamente all’elemento soggettivo, il ricorso può considerarsi temerario “solo
allorquando, oltre ad essere erroneo in diritto, sia tale da palesare la
consapevolezza della non spettanza del diritto fatto valere, o evidenzi un
grado di imprudenza, imperizia o negligenza accentuatamente anormali”[22].
6.
La responsabilità aggravata ed il
risarcimento del danno
La
giurisprudenza della Cassazione ha espresso analoghe considerazioni anche in
ordine ai requisiti che integrano la responsabilità aggravata di cui al terzo
comma dell’articolo 96 c.p.c.. Più precisamente, il danno risarcibile è, anche
in questo caso, limitato al grado di giudizio considerato[23]. La
mala fede o la colpa grave sono altresì richieste nelle ipotesi di cui
all’articolo 96, terzo comma, c.p.c. “non solo perché sono inserite in un
articolo destinato a disciplinare la responsabilità aggravata, ma anche perché
agire in giudizio per far valere una pretesa che alla fine si rileva infondata
non costituisce condotta di per sé rimproverabile[24] e, a maggior ragione,
quella di cui al comma 3 attesa la sua natura sanzionatoria”[25].
Al fine di
rispettare sostanzialmente il principio di soccombenza e di tenere indenne la
parte vittoriosa da tutte le spese sostenute nel giudizio, compresi i c.d.
oneri accessori, il nuovo comma 2-ter dell’articolo 15 specifica che le
spese di giudizio comprendono - oltre al contributo unificato, agli onorari e
ai diritti del difensore, alle spese generali e agli esborsi sostenuti - anche
i contributi previdenziali e l’imposta sul valore aggiunto eventualmente
dovuti.
7.
Sospensione dell’atto impugnato e
spese processuali
Il nuovo
comma 2-quater risponde all’esigenza di evitare un uso strumentale del
contenzioso e, in particolare, un abuso delle richieste di tutela cautelare. La
predetta disposizione prevede, infatti, che la statuizione sulle spese di lite
debba essere contenuta anche nell’ordinanza (non impugnabile) con cui il giudice
decide sull’istanza di sospensione dell’atto impugnato o di sospensione dell’esecutività
provvisoria della sentenza impugnata con appello o con ricorso per cassazione
ai sensi, rispettivamente, degli articoli 47, 52 e 62-bis.
Si ritiene
che la non impugnabilità dell’ordinanza in esame non costituisca, comunque, un
limite alla tutela della parte eventualmente dichiarata soccombente in ordine
alle spese della fase cautelare.
Il giudice
conserva, invero, la possibilità di disporre diversamente in ordine alle spese
della fase cautelare nel provvedimento adottato all’esito del giudizio. In
questo caso, la sentenza che definisce il giudizio assorbe l’ordinanza sia
sotto il profilo cautelare che nella disposizione sulle spese di lite. La parte
che intenda dolersi della condanna alle spese della fase cautelare potrà,
quindi, impugnare la sentenza nel relativo capo.
Ove il
giudice non provveda in sentenza sulle spese di lite della fase cautelare,
l’ordinanza adottata in detta fase sarà assorbita dalla sentenza solo nella
parte che ha deciso sull’istanza di sospensione, mentre conserverà la propria
efficacia nel capo che dispone sulle spese del giudizio cautelare. La parte che
intenda dolersi della condanna alla rifusione delle spese del giudizio cautelare
– contenuta nella relativa ordinanza – potrà dunque, in tal caso, impugnare la
sentenza in quanto ha omesso di disporre diversamente in merito alle spese
della fase cautelare.
7.1 Questione di legittimità alla Consulta
sulle spese di giudizio
A sollevare la questione di costituzionalità per le neo
introdotte spese di giudizio per la fase cautelare è la Ctp di Treviso che, con
ordinanza 99 del 2016 (Gazzetta Ufficiale 21 del 25 maggio 2016) ha posto al
vaglio della Consulta la legittimità della nuova previsione normativa,
ravvisando alcuni profili di incostituzionalità in questa nuova previsione.
Innanzitutto secondo il collegio, la disposizione potrebbe essere viziata
dall’eccesso di delega. La riforma del processo tributario è stata attuata
secondo le previsioni contenute nella legge delega (23/2014), la quale, all’articolo
10 sulle spese di giudizio, testualmente richiedeva «l’individuazione di
criteri di maggior rigore nell’applicazione del principio della soccombenza ai
fini del carico delle spese del giudizio, con conseguente limitazione del
potere discrezionale del Giudice di disporre la compensazione delle spese in
casi diversi dalla soccombenza reciprocaIn attuazione di tale principio, la
nuova norma prevede più stringenti limiti alla compensazione, richiedendo cioè
che ricorrano gravi ed eccezionali ragioni che devono essere espressamente
motivate. Tuttavia, la Ctp di Treviso ha rilevato che nella legge delega non è
fatto alcun cenno alla fase cautelare, con la conseguenza che l’introduzione di
tale disposizione vada oltre le specifiche richieste del legislatore delegante.
A ciò si aggiunga che la decisione cautelare non è impugnabile, nemmeno per la parte riferita alle spese: la nuova disposizione, quindi, non può certo aver rafforzato la tutela giurisdizionale del contribuente e pertanto anche “indirettamente” non pare rispondere ai criteri della legge delega.
A ciò si aggiunga che la decisione cautelare non è impugnabile, nemmeno per la parte riferita alle spese: la nuova disposizione, quindi, non può certo aver rafforzato la tutela giurisdizionale del contribuente e pertanto anche “indirettamente” non pare rispondere ai criteri della legge delega.
Il Collegio rimettente ha infine osservato che la condanna
alle spese della fase cautelare non può essere immediatamente esecutiva,
cosicché la sua introduzione nel processo tributario, tanto meno può avere un
effetto deterrente sulla proposizione dell’istanza stessa. Va rilevato, infatti
che talvolta la richiesta di sospensione è “tentata” a prescindere dalla
contemporanea sussistenza di entrambi i requisiti necessari (fumus boni
iuris e periculum in mora), con l’unico fine di evitare l’esborso di
denaro in attesa della decisione di merito. Sul punto, la Ctp di Treviso ha
rilevato che se le spese liquidate nell’ordinanza di sospensione non sono
immediatamente dovute, perché di fatto sono rinviate all’esito del giudizio di
merito e la condanna nella fase cautelare potrebbe risultare irrilevante, in
quanto i giudici con la decisione di merito potrebbero giungere a differenti
conclusioni. Ne consegue così, secondo l’ordinanza di rimessione, che pur
individuando l’intento del legislatore nella riduzione del numero di richieste
cautelari, limitandole solo a quelle realmente fondate (ossia con i requisiti
previsti), è verosimile che l’introduzione delle spese non porterà ad alcun
risultato in tal senso. Da qui i dubbi di costituzionalità.
8.
Liquidazione delle spese processuali.
Il nuovo
comma 2-quinquies dell’articolo 15 conferma il principio recato dalla
precedente formulazione del comma 2, secondo cui i compensi spettanti agli
incaricati dell’assistenza tecnica sono liquidati in base ai parametri previsti
per le relative prestazioni professionali. Per i soggetti autorizzati
all’assistenza tecnica dal Ministero dell’economia e delle finanze si applica,
invece, la disciplina degli onorari, delle indennità e dei criteri di rimborso
delle spese per le prestazioni professionali dei dottori commercialisti e degli
esperti contabili[26].
Il comma
2-sexies dell’articolo 15 - nel quale è stato trasfuso, con alcune modifiche,
il precedente comma 2-bis del medesimo articolo - disciplina la liquidazione
delle spese a favore dell’Agenzia delle entrate, dell’Agenzia delle dogane e
dei monopoli, degli altri enti impositori, degli agenti e dei concessionari privati
della riscossione, per il caso in cui essi siano assistiti da propri dipendenti[27].
In
particolare, si prevede l’applicazione della disciplina relativa ai compensi
per la professione forense - attualmente contemplata dal decreto del Ministro
della giustizia 10 marzo 2014, n. 55 - con la riduzione del 20 per cento[28].
9.
Riscossione a seguito di condanna.
Tramite
una disposizione di favore per il contribuente, già presente nella precedente
formulazione del comma 2-bis, il secondo periodo del comma 2- sexies prevede
che la riscossione delle somme liquidate a favore di tutti gli enti impositori,
nonché degli agenti e concessionari della riscossione avviene, mediante
iscrizione a ruolo, soltanto dopo il passaggio in giudicato della sentenza.
Nell’ipotesi
di una sentenza che condanni, invece, l’Amministrazione finanziaria al
pagamento delle spese di lite, si applica la disciplina di cui all’articolo 69,
comma 1, primo periodo, del decreto n. 546, in vigore a far data dal 1°
giugno 2016, in base alla quale “Le sentenze di condanna al pagamento di somme
in favore del contribuente e quelle emesse su ricorso avverso gli atti relativi
alle operazioni catastali indicate nell’articolo 2, comma 2, sono immediatamente
esecutive”[29].
In caso di
mancata esecuzione, il contribuente ha la possibilità di promuovere giudizio di
ottemperanza ai sensi dell’articolo 70 del decreto n. 546, che – in
ordine alle spese di giudizio e indipendentemente dal relativo importo – compete
alla commissione tributaria in composizione monocratica.
10. Spese
processuali a seguito di mediazione e conciliazione
Con le
disposizioni dei commi 2-septies e 2-octies, il legislatore ha disciplinato
le spese riferite alle controversie oggetto di reclamo/mediazione e di conciliazione
giudiziale, con l’intento di incentivare l’utilizzo dei due istituti, potenziandone
l’effetto deflattivo.
Nel comma
2-septies, anche per una maggiore sistematicità del testo di legge, è
stata riportata la disposizione già contenuta nel precedente testo dell’articolo
17-bis, comma 10, del decreto n. 546, secondo cui, nel caso di controversie
proposte avverso atti reclamabili, le spese di giudizio liquidate in sentenza
sono maggiorate del 50 per cento.
La
disposizione ha riguardo alle spese di giudizio di cui al comma 1 dell’articolo
15 in commento, ossia alle spese di lite che sono poste a carico della parte
interamente soccombente, “con la duplice finalità di incentivare la mediazione,
oggi estesa a tutti gli enti impositori, e di riconoscere alla parte vittoriosa
i maggiori oneri sostenuti nella fase procedimentale obbligatoria ante causam”.
Non è
stato, invece, riprodotto il secondo periodo del comma 10 del precedente
articolo 17-bis, che, ai fini della compensazione delle spese, faceva riferimento
ai “giusti motivi, esplicitamente indicati nella motivazione, che hanno indotto
la parte soccombente a disattendere la proposta di mediazione”.
Ciò
nondimeno, resta salva l’applicabilità delle disposizioni recate dal comma 2
dell’articolo 15 in esame; pertanto, fuori dai casi di soccombenza reciproca,
la compensazione delle spese, comprese quelle della fase di reclamo/mediazione,
può essere disposta solo qualora sussistano e siano espressamente dedotte in
motivazione specifiche circostanze o aspetti della controversia, assistite dai
requisiti della gravità e della eccezionalità, tra le quali potranno rilevare
anche considerazioni in ordine ai motivi che abbiano indotto la parte
soccombente a disattendere una eventuale proposta di mediazione.
Il comma
2-octies prevede, infine, che le spese del processo sono interamente
addebitate alla parte che ha rifiutato la proposta di conciliazione, ove il
riconoscimento delle pretese risulti inferiore al contenuto dell’accordo proposto[30].
In caso di
conclusione della conciliazione le spese del processo saranno, invece,
dichiarate compensate, salva diversa determinazione delle parti nell’accordo o
nel processo verbale di conciliazione.
In
definitiva, se si conclude la conciliazione, le spese vengono compensate, salvo
diverso accordo tra le parti. Se, invece, non si addiviene a conciliazione,
possono verificarsi le seguenti ipotesi:
1) una parte
risulta totalmente soccombente e alla stessa sono addebitate, secondo il
principio generale, le spese di lite, salvo il caso in cui sussistano gravi ed
eccezionali ragioni;
2) c’è
soccombenza reciproca e la sentenza ha rideterminato la pretesa per un
ammontare inferiore al contenuto della proposta conciliativa, rifiutata da una
delle parti per un giustificato motivo, nel qual caso le spese del processo sono
compensate;
3) c’è
soccombenza reciproca e la sentenza ha rideterminato la pretesa per un ammontare
inferiore al contenuto della proposta, rifiutata da una delle parti senza un
giustificato motivo, nel qual caso il giudice pone le spese dell’intero
processo a suo carico;
4) c’è
soccombenza reciproca e la sentenza ha rideterminato la pretesa per un
ammontare uguale o superiore al contenuto della proposta, nel qual caso il
giudice dispone la compensazione delle spese.
10.1 La condanna alle spese della
parte soccombente che rifiuta la proposta di mediazione.
Nella
valutazione dei possibili esiti della controversia, anche in ordine ai costi
complessivi della stessa, non va trascurato quanto previsto al comma 2-septies[31],
ovvero la maggiorazione del 50% delle spese di giudizio a carico della parte
soccombente nelle liti reclamabili. Seri dubbi si pongono in ordine alla
legittimità di tale “penalizzazione”, attesa l’obbligatorietà della fase di
mediazione, e “l’incentivo” a definire, fosse anche con la sola riduzione delle
sanzioni.
10.2 La condanna alle spese della
parte che rifiuta la proposta di conciliazione.
Con
riferimento a quanto previsto al punto 3) che precede, la disposizione
introdotta dal D.Lgs. n. 156/2015[32] si
manifesta come norma speciale rispetto a quella, largamente similare, del
processo civile ex art. 91 cpc; ma non è solo la “residenza” normativa che
distingue detta disposizione dagli artt. 88 e 89 cpc[33],
poiché solo queste ultime due norme aprono la via a condanne che possono essere
rivolte alla parte totalmente vittoriosa; infatti la norma processuale
tributaria, che pure costituisce una deroga al principio della soccombenza e,
precisamente, all’obbligo di compensazione delle spese in caso di soccombenza
reciproca, riguarda un tipo di condanna che può essere inflitta alla parte
parzialmente vittoriosa, finanche nel caso in cui tale parzialità sia larga e
rilevante; infatti l’art. 15 prescinde dalla soccombenza prevalente poiché, a
mente dei contenuti della stessa, può subìre la condanna al pagamento delle
spese di lite la parte che rifiuta la proposta conciliativa senza un
giustificato motivo, pur se poi quella stessa parte viene poi riconosciuta
dalla sentenza in una posizione di larga ragione e quindi in una posizione di
residuale soccombenza.
11. Compensazione
delle spese e cessazione della materia del contendere
Coerentemente
con il nuovo assetto delle spese di lite e con il rafforzamento del principio
di soccombenza, l’articolo 9, comma 1, lettera q), del decreto di riforma, ha
modificato l’articolo 46 del decreto n. 546, che reca la disciplina
dell’estinzione del giudizio per cessazione della materia del contendere.
Con
particolare riguardo al comma 3 dell’articolo 46, la previsione della compensazione
delle spese di lite è stata limitata alle ipotesi di cessazione della materia
del contendere per definizione delle pendenze tributarie “previste dalla legge”
(ad esempio, a seguito di condono). In tal modo, il legislatore, come emerge
dalla relazione illustrativa, ha recepito i principi affermati nella sentenza 12
luglio 2005, n. 274, con cui la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale
dell’articolo 46, comma 3, laddove prevedeva che le spese del giudizio estinto
restassero a carico della parte che le aveva anticipate in ogni caso di
cessazione della materia del contendere[34].
12. Conclusioni
L’applicazione dei nuovi
criteri qui esaminati ha avuto effetti immediati, con condanne alle spese che,
tuttavia, andranno esaminate accuratamente, per verificarne i criteri di
determinazione in ordine ai relativi presupposti. Il rischio, in caso di
liquidazione forfettaria ed incontrollata, è che il tutto si traduca in una
ulteriore gravosa “sanzione” per il contribuente ricorrente, con un sempre più
evidente inasprimento complessivo delle conseguenze per chi “si avventura” nel
processo tributario senza una piena convinzione delle proprie ragioni e senza
una piena competenza della materia. All’aggravarsi delle ipotesi di condanna
alle spese non vanno, infine, dimenticate le ipotesi di aumento e raddoppio del
contributo unificato, conseguenti anche gli esiti negativi, in particolare il
rigetto integrale del ricorso in appello.[35],
[36]
***********
[1]
Università di Roma La Sapienza Facoltà di Giurisprudenza Cultore di Diritto
Tributario – Dottore Commercialista in
Pescara.
[2]
in vigore dal 01.01.2016
[3]
E quindi lo scopo che viene perseguito da sempre: la riduzione del contenzioso
fiscale.
[4]
Il che potrà avere senso solo ove la condanna alle spese sia applicata con gli
stessi criteri, al ricorrente ed all’ente impositore.
[5]
Cfr., tra le altre, Cassazione
901/2012
[6]
Cass. 21 gennaio 2015, n. 930
[7]
Cass. 13 gennaio 2015, n. 373
[8] Si evidenzia al riguardo che l’articolo 92 c.p.c. , al
secondo comma, individua le ragioni gravi ed eccezionali nella “assoluta
novità della questione trattata o mutamento della giurisprudenza rispetto alle
questioni dirimenti”.
[9]
così Cass. ord. n.
22381/09 e n. 21684/13
[10]
Cass. 30 settembre 2015, n. 19520
[11] Ai fini della compensazione nel caso di soccombenza
reciproca occorre, inoltre, aver riguardo all’oggetto della lite nel suo
complesso, poiché “nessuna norma prevede, per il caso di soccombenza
reciproca delle parti, un criterio di valutazione della prevalenza della
soccombenza dell’una o dell’altra
basato sul numero delle
domande accolte o respinte per ciascuna di esse (così Cass. 24 gennaio 2013, n.
1703)” (Cass. 21 gennaio 2015, n. 930).
[12]
Corte Cassazione n. 8413 pubblicata il 27.4.2016: Nessuna condanna alle spese di lite per
chi perde in giudizio contro la Pubblica Amministrazione che si difende senza
avvocato.
[13]
Corte di Cassazione, Sez. II, sentenza n. 12625,
pubblicata il 17 giugno 2016: E’
viziata la sentenza che nulla dispone in merito alle spese di giudizio Qualora
il difensore della parte, come comunemente avviene, nel proprio atto tra le
conclusioni chieda la condanna di controparte al pagamento delle spese del
procedimento civile, il giudice deve necessariamente provvedere in merito alla
richiesta e, qualora intenda compensarle tra le parti deve darne adeguata
motivazione, tale evenienza non può, infatti, ritenersi desumibile dalla omessa
pronuncia sul punto.
[14]
Processo amministrativo - L'appello contro la condanna alle spese di
giudizio: i paletti del Consiglio di Stato - La manifesta abnormità nei
principi sanciti dalla Terza Sezione nella sentenza del 31.3.2016 n. 1262.
In
materia di spese, vige la regola generale della condanna alle spese del
giudizio della parte soccombente prevista dall'art. 91 del codice di procedura
civile, applicabile nel processo amministrativo per espresso rinvio dell’art.
26, comma 1, c.p.a..
Inoltre
anche qualora, sopravvenga nel corso del giudizio il comportamento o il
provvedimento integralmente satisfattivo delle ragioni dell’istante, con
conseguente dichiarazione di cessazione della materia del contendere, il
giudice, in mancanza di un espresso accordo delle parti sulla compensazione
delle spese, deve comunque verificare, alla stregua del criterio della
soccombenza virtuale, le ragioni della parte che abbia visto soddisfatta la sua
pretesa solo dopo l'introduzione del giudizio.
La
giurisprudenza consolidata ritiene che la
sindacabilità in appello della condanna alle spese comminata in primo grado, in
quanto espressiva della discrezionalità di cui dispone il giudice in ogni fase
del processo, è limitata solo all’ipotesi in cui venga modificata la decisione
principale, salvo la manifesta abnormità.
Sulla
base di tale premessa la Terza
Sezione del Consiglio di Stato nella sentenza del 31.3.2016 n. 1262 ha
affermato che sussiste quest’ultima evenienza di “abnormità” della decisione, sicché la liquidazione delle spese può
ritenersi illogica, se ed in quanto
l'ammontare delle singole partite computate (spese per atti del procedimento,
onorari e diritti) sia sproporzionato rispetto alle spese documentate o in
relazione all’impegno professionale profuso, secondo un criterio di
proporzionalità e ragionevolezza che si desume dall’art. 2233, comma secondo,
c.c..
Quanto
alla misura delle spese, vi è
una prassi consolidata del giudice amministrativo di procedere alla
liquidazione di spese e onorari in misura forfetaria, senza pedissequamente
attenersi ai limiti minimi/massimi della tariffa professionale, in applicazione
di criteri di equità solitamente non esplicitati in sentenza (prassi cui si è
adeguata anche quella degli avvocati di non allegare la nota degli onorari e
delle spese con riferimento alle singole voci della tabella).
In
tal caso, precisano i giudici di Palazzo Spada, solitamente i criteri di liquidazione vengono rinvenuti
non tanto nel raffronto fra la tariffa professionale e il valore economico
della causa, quanto piuttosto in circostanze eterogenee, intrinseche all'intero
giudizio, variabili di volta in volta, quali ad esempio la maggiore o
minore complessità delle questioni affrontate, l'applicazione di precetti
giurisprudenziali consolidati, la natura della pretesa di cui si chiede
l'affermazione, il comportamento tenuto dall'amministrazione nel caso
concreto. (Fonte: Consiglio di Stato Sez. 3a sent. del 31.3.2016 n. 1262).
[15]
Cass. 13 luglio 2015, n. 14546; Cass. 11 luglio
2014, n. 16037
[16]
Cass. 17 settembre 2015, n. 18276
[17]
Cass. 13 luglio 2015, n. 14546; Cass. 20 ottobre
2010, n. 21521
[18]
cfr. anche Cass. 17 settembre 2015, n. 18276
[19]
Non è invece applicabile al processo tributario
il secondo comma dell’articolo 96 c.p.c., per il quale “Il giudice che
accerta l’inesistenza del diritto per cui è stato eseguito un provvedimento
cautelare, o trascritta domanda giudiziale, o iscritta ipoteca giudiziale,
oppure iniziata o compiuta l’esecuzione forzata, su istanza della parte
danneggiata condanna al risarcimento dei danni l’attore o il creditore procedente,
che ha agito senza la normale prudenza. La liquidazione dei danni è fatta a
norma del comma precedente”.
[20]
Cass. 5 marzo 2015, n. 4443
[21]
Cass. 13 luglio 2015, n. 14611
[22]
Cass. 13 luglio 2015, n. 14611
[23]
Cass. 4 febbraio 2015, n. 1952; Cass., SS.UU., 3
giugno 2013, n. 13899
[24]
Cass. 30/11/2012 n.
21570 Ord.
[25]
Cass. 12 maggio 2015, n. 9581; Cass. 11 febbraio
2014, n. 3003
[26] A seguito dell’entrata in vigore del D.L. 24 gennaio 2012 n. 1 (cd “Decreto
liberalizzazioni”), le Tariffe delle professioni regolamentate nel sistema
ordinistico sono state abrogate con decorrenza dal 25 gennaio 2012. Con D.M.
n. 140 del 20.07.2012 è stato emanato il Regolamento recante la determinazione
dei parametri per la liquidazione da parte di un organo giurisdizionale dei
compensi per le professioni regolarmente vigilate dal Ministero della
giustizia, ai sensi dell'articolo 9 del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, convertito,
con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27.
[27] Cfr.
nota n. 12
[28]
I DM
emanati:
·
140/2012 per i
dottori commercialisti e le categorie professionali ex art. 12 comma 4 del DLgs
546/92 iscritte negli elenchi del Ministero dell'Economia e delle Finanze;
·
46/2013 per i
consulenti del lavoro;
·
55/2014 per gli
avvocati.
Dall'esame
della normativa, i compensi sono
determinati in base agli accordi tra la parte e il proprio difensore ovvero, in
difetto, in base ai parametri dei sopra riferiti DM.
Si può quindi dedurre che l'omesso deposito della nota spese non invalida la liquidazione giudiziale. Infatti, il giudice può ben determinare sia gli onorari sulla base dei parametri degli specifici DM, sia le spese - ad esempio il contributo unificato - desumendole dagli atti del processo.
Si può quindi dedurre che l'omesso deposito della nota spese non invalida la liquidazione giudiziale. Infatti, il giudice può ben determinare sia gli onorari sulla base dei parametri degli specifici DM, sia le spese - ad esempio il contributo unificato - desumendole dagli atti del processo.
E'
comunque opportuno - solo per evitare successive divergenze - che il difensore,
oltre alla procura alle liti, ottenga dal cliente un formale mandato che
individui la prestazione professionale in relazione ai diversi stadi
procedimentali con l'accordo sul compenso spettante.
In assenza di tariffe
professionali, forse è anche inutile redigere la nota spese con indicazione in
modo distinto e specifico gli onorari e le spese, come prevede l'articolo 75
delle disposizioni attuative del codice di procedura civile.
[29] La
disposizione è, tuttavia, subordinata all’emissione di un regolamento
attuativo, allo stato non ancora emanato.
[30] In merito alla normativa precedente, cfr. punto 2.7
della circolare 31 marzo 2010, n. 17/E, ove si è ritenuta applicabile anche al
contenzioso tributario la disposizione di cui all’articolo 91 c.p.c.,
evidenziando che “gli Uffici, nei casi in cui il contribuente abbia
rifiutato la proposta di conciliazione giudiziale formulata, anche a seguito di
tentativo di conciliazione esperito d’ufficio dal giudice, avanzeranno
richiesta di condanna alle spese subordinandola alla circostanza che la
Commissione tributaria decida in senso conforme alla proposta di conciliazione
ovvero in termini ancora più favorevoli all’Ufficio”.
[31] Art. 15
comma 2-septies - Nelle controversie di
cui all'articolo 17-bis le spese di giudizio di cui al comma 1 sono maggiorate
del 50 per cento a titolo di rimborso delle maggiori spese del procedimento.
[32]
Art. 15
comma 2-octies. Qualora una delle
parti abbia formulato una proposta conciliativa, non accettata dall'altra parte
senza giustificato motivo, restano a carico di quest'ultima le spese del
processo ove il riconoscimento delle sue pretese risulti inferiore al contenuto
della proposta ad essa effettuata. Se e' intervenuta conciliazione le spese si
intendono compensate, salvo che le parti stesse abbiano diversamente convenuto
nel processo verbale di conciliazione.
[33]
Condanna
alle spese della parte che rifiuta la proposta di conciliazione.
Con riferimento a quanto previsto al comma 2-octies
art. 15 d.lgs. 546/92, la disposizione introdotta dal D.Lgs. n. 156/2015 si
manifesta come norma speciale rispetto a quella, largamente similare, del
processo civile ex art. 91 cpc; ma non è solo la “residenza” normativa che
distingue detta disposizione dagli artt. 88 e 89 cpc, poiché solo queste ultime
due norme aprono la via a condanne che possono essere rivolte alla parte
totalmente vittoriosa; infatti la norma processuale tributaria, che pure costituisce
una deroga al principio della soccombenza e, precisamente, all’obbligo di
compensazione delle spese in caso di soccombenza reciproca, riguarda un tipo di condanna che può essere
inflitta alla parte parzialmente vittoriosa, finanche nel caso in cui tale
parzialità sia larga e rilevante; infatti l’art. 15 prescinde dalla
soccombenza prevalente poiché, a mente dei contenuti della stessa, può subìre la condanna al pagamento delle
spese di lite la parte che rifiuta la proposta conciliativa senza un giustificato
motivo, pur se poi quella stessa parte viene poi riconosciuta dalla
sentenza in una posizione di larga ragione e quindi in una posizione di
residuale soccombenza.
[34] Nella sentenza n. 274 del 2005, la Corte
costituzionale ha, in particolare, osservato che “La compensazione ope legis delle spese nel caso di
cessazione della materia del contendere” rende inoperante il principio
statuito dall’articolo 15 del decreto n. 546, secondo cui le spese di
giudizio fanno carico al soccombente. Pertanto, tale compensazione “si
traduce … in un ingiustificato privilegio per la parte che pone in essere un
comportamento (il ritiro dell’atto, nel caso dell’amministrazione, o
l’acquiescenza alla pretesa tributaria, nel caso del contribuente) di regola
determinato dal riconoscimento della fondatezza delle altrui ragioni, e,
corrispondentemente, in un del pari ingiustificato
pregiudizio per la
controparte, specie quella privata, obbligata ad avvalersi, nella nuova
disciplina del processo tributario, dell’assistenza tecnica di un difensore e,
quindi, costretta a ricorrere alla mediazione
(onerosa) di un
professionista abilitato alla difesa in giudizio.”.
[35]
Se il ricorso del contribuente viene integralmente rigettato, via al raddoppio
del contributo unificato. Così si è espressa la Corte di Cassazione con la
sentenza n. 19432 del 2015.
Il fatto trae origine dal
contenzioso instaurato tra l’Agenzia delle Entrate ed una S.r.l.. La
Commissione tributaria regionale in parziale accoglimento del ricorso in
appello proposto da una S.p.a., ha confermato la decisione di primo grado
quanto alla riconosciuta legittimità dell'avviso di accertamento con il quale
era stato rideterminato il maggior reddito d'impresa ai fini IVA, IRPEG ed IRAP
per l'anno 2002, con eccezione della modesta differenza riscontrata tra i dati
della contabilità di magazzino e le giacenze verificate a campione, che doveva
giustificarsi in considerazione della "fisiologica e ordinaria dinamica
gestionale del magazzino". La CTR rilevava che la società contribuente non
aveva supportato con idonee prove le allegazioni difensive secondo cui era
ordinaria prassi per i clienti richiedere un finanziamento maggiore del prezzo
di acquisto dei veicoli, e che costituiva evasione d'imposta la anomala
intestazione dei veicoli "dalla casa madre al concessionario". Al
contrario, le pretese fiscali risultavano supportate dalla prova del maggiore
prezzo di vendita rispetto a quello fatturato ai clienti, come emergeva dalle
risposte fornite da quest'ultimi ai questionari inviati dall'Ufficio
finanziario.
Contro la sentenza, proponeva
ricorso per cassazione la società, in particolare deducendo vizi di
motivazione, nonché vizi per errores in procedendo ed in judicando.
La Corte di Cassazione ha
respinto il ricorso della società contribuente.
Orbene, al di là delle ragioni di
rigetto del ricorso, tutte fondate sulla inammissibilità o sulla infondatezza
delle questioni sollevate dalla contribuente, ciò che rileva nella decisione
degli Ermellini è l’affermazione secondo cui sussistono, in questo caso, i
presupposti per l’applicazione della norma del Testo Unico sulle spese di
giustizia che dispone l'obbligo del versamento per il ricorrente di un
ulteriore importo a titolo di contributo unificato nel caso in cui la sua
impugnazione sia stata integralmente rigettata. Il che equivale a dire, in
altri termini, che il rischio per il contribuente, in caso di rigetto integrale
del ricorso, non è solo quello di vedersi condannato alle spese, ma anche di
essere tenuto a versare un importo pari al doppio del contributo unificato,
che, nelle controversia tributarie, può anche raggiungere importi di per sé
rilevanti.
In sostanza, la Cassazione
tributaria recepisce, nel caso in esame, gli insegnamenti delle Sezioni Unite
che, sul punto, hanno affermato che in tema di impugnazione, l'obbligo di
versamento, per il ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo
unificato nel caso in cui la sua impugnazione sia stata integralmente
rigettata, si applica ai procedimenti iniziati in data successiva al 30 gennaio
2013, dovendosi aver riguardo, secondo i principi generali in tema di
litispendenza, al momento in cui la notifica del ricorso si è perfezionata, con
la ricezione dell'atto da parte del destinatario, e non a quello in cui la
notifica è stata richiesta all'ufficiale giudiziario o l'atto è stato spedito a
mezzo del servizio postale.
Da qui, dunque, il rigetto del
ricorso con condanna alle spese ed al raddoppio del contributo unificato.
Di rilievo le conseguenze
pratiche della sentenza. Ne consegue che il rischio per il contribuente, in
caso di rigetto integrale del ricorso, non è solo quello di vedersi condannato
alle spese, ma anche di essere tenuto a versare un importo pari al doppio del
contributo unificato, che, nelle controversie tributarie, può anche raggiungere
importi di per sé rilevanti.
[36]
La Corte costituzionale, con la sentenza 120, depositata IL 02 giugno 2016, ha
giudicato in parte inammissibili e in parte infondate le questioni sollevate
dalla Corte d’appello di Firenze. In particolare, quest’ultima sosteneva che la
norma, applicabile anche quando l’appello è dichiarato improcedibile sulla base
dell’articolo 348, comma 2 del Codice di procedura civile per mancata
comparizione dell’appellante alla prima udienza e a quella successiva di cui
gli è stata data comunicazione, realizzerebbe un’ingiustificata disparità di
trattamento, in violazione dell’articolo 3 della Costituzione, rispetto
all’ipotesi di cancellazione della causa dal ruolo con conseguente estinzione
del processo (articoli 181 e 309 del Codice di procedura). Per la Consulta però
le situazioni messe a confronto non sono omogenee e non si possono pertanto
paragonare, nonostante il dato comune della mancata comparizione. Anzitutto,
sottolinea la sentenza , va sottolineato come il regime del raddoppio del
contributo unificato accomuna tutti i casi di esito negativo dell’appello,
essendo previsto per le ipotesi del rigetto integrale o della definizione
sfavorevole all’appellante. In questa categoria rientra l’improcedibilità
inflitta dall’articolo 348, comma 2, ma non l’ipotesi di cancellazione della
causa dal ruolo ed estinzione del processo. Inoltre, come ricordato dalla
Cassazione, la norma censurata risponde all’opportunità di scoraggiare le
impugnazioni dilatorie o pretestuose. Una ratio che invece non si può
individuare nella fattispecie dell’articolo 181, che prescinde dalla
utilizzazione impropria dell’impugnazione, «ma riguarda soltanto l’omologa
condotta omissiva delle parti – alla luce dell’orientamento assolutamente
prevalente nella giurisprudenza di legittimità, secondo cui la mancata presenza
alla prima udienza ed alla successiva dell’appellante e dell’appellato
costituito determina la cancellazione della causa dal ruolo e l’estinzione del
processo (anziché l’improcedibilità dell’appello) – con la conseguenza che la
funzione deterrente riconosciuta alla norma censurata non avrebbe modo di
esprimersi». Se, sempre in base alla giurisprudenza della Cassazione, poi il
raddoppio del contributo unificato è previsto per il rimborso dei costi del
vano funzionamento dell’apparato giudiziario o dell’inutile erogazione delle
limitate risorse a sua disposizione, va sottolineato come questo dispendio di
energie processuali non caratterizza gli articoli 181 e 309. Si tratta infatti
di fattispecie nelle quali le parti coinvolte dimostrano, spesso di comune
accordo, il loro disinteresse alla prosecuzione del giudizio.