lunedì 13 giugno 2016

GIUSEPPE ALIANO - LA SOSPENSIONE DEL PROCESSO TRIBUTARIO


La sospensione del processo tributario procedimento e conseguenze

 

di Giuseppe Aliano

Università di Roma La Sapienza Cultore di Diritto Tributario

 

Sommario

1.Rapporto tra art. 39 d.lgs. 546/92 e art. 295 c.p.c.; 2. Gli “incidenti probatori”; 3. Disconoscimento; 4. Verificazione; 5. Procedimento; 6. Querela di falso; 7. Querela di falso e sospensione del processo; 8. La valutazione del Giudice Tributario; 9. Gli atti oggetto di querela di falso; 10. Sull’obbligo di sospensione del giudizio; 11. Il procedimento; 12. Autonomia del procedimento per querela di falso; 13. La sospensione del processo; 14. Il procedimento; 15. La ripresa del processo sospeso; 16. Estinzione del processo tributario per inattività delle parti; 17. Estinzione del giudizio per inattività delle parti davanti alla Commissione Tributaria Provinciale; 18. Estinzione del giudizio davanti alla Commissione Tributaria Regionale; 19. Gli effetti della mancata riassunzione della controversia rinviata dalla Corte di Cassazione alla Commissione Tributaria Regionale; 20. Estinzione del giudizio e riscossioneCassaz. n. 4574 del 6 marzo 2015.

 

 

1)      Rapporto tra art. 39 d.lgs. 546/92 e art. 295 c.p.c.

 

L’art. 1, comma 2, D.Lgs. 546/92 dispone che: “I giudici tributari applicano le norme del presente decreto e, per quanto da esse non disposto e con esse compatibili, le norme del codice di procedura civile”.

Si tratta dunque di stabilire un coordinamento tra la normativa del processo tributario e quella del processo civile.

 

Ai sensi dell’art. 295 c.p.c. “Il Giudice dispone che il processo sia sospeso in ogni caso in cui egli stesso o altro giudice deve risolvere una controversia dalla cui definizione dipende la decisione della causa.”.

Non è così nel processo tributario, stante l’espressa limitazione dell’art. 39:

1. Il processo e' sospeso quando e' presentata querela di falso o deve essere decisa in via pregiudiziale una questione sullo stato o la capacita' delle persone, salvo che si tratti della capacita' di stare in giudizio.

La Corte di Cassazione, dopo plurime oscillazioni, sembra aver risolto la questione sulla base della distinzione tra pregiudizialità interna ed esterna intendendo, rispettivamente, quella che intercorre tra controversie rientranti nella stessa giurisdizione e quella che intercorre tra cause di giurisdizioni differenti.

Dunque l’art. 39 D.Lgs. 546/92 regolerebbe esclusivamente i rapporti esterni, cioè i rapporti tra giurisdizione tributaria e non tributaria (tutti i rapporti al di là dei casi previsti dall’art. 39), mentre per i rapporti interni, vale a dire tra la giurisdizione tributaria, deve trovare applicazione l’art. 295 c.p.c. (cfr. in tal senso Corte di Cassazione, sentenza n. 12008 del 28.5.2014; sentenza n. 421 del 10.1.2014; ordinanza n. 12442 del 2014).

Diversamente si è da sempre atteggiata la dottrina la quale insiste nel ritenere che la norma tributaria riguardi sia i casi di pregiudizialità esterna che quelli di pregiudizialità interna (eccetto solo le ipotesi di rimessione pregiudiziale alla Corte Costituzionale o alla Corte di Giustizia Europea).

Secondo tale impostazione il legislatore dunque, con l’art. 39, non avrebbe inteso regolare solo i rapporti con le altre giurisdizioni, bensì anche i casi di pregiudizialità all’interno della giurisdizione tributaria.

La sospensione ex art. 39 deve perciò ritenersi l’unica applicabile nel processo tributario.

Sulla questione si è altresì pronunciata, in un’ottica sicuramente molto aderente al dettato normativo e coerente con lo spirito del D.Lgs. 546/92, la Corte Costituzionale la quale, con la sentenza n. 31 del 1998, ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 39 D.Lgs. 546/92 rispetto agli artt. 3 e 24 Cost. nella parte in cui non prevede la sospensione necessaria nei casi di pregiudizialità interna.

L’art. 39, in chiave innovativa rispetto al sistema previgente e a sostegno della ragionevole durata del processo, ha voluto infatti limitare i casi di sospensione necessaria del processo lasciando che ogni altra questione pregiudiziale diversa dalle due contemplate venga decisa incidentalmente. Tale previsione, afferma la Consulta, non lede né l’art. 3 della Costituzione in quanto rappresenta una scelta legislativa rispettosa del principio di ragionevolezza, né l’art. 24 poiché il contribuente può far valere, indipendentemente dal corso o dall’esito del giudizio pregiudiziale, tutte le sue difese.

Sul piano della littera legis, infatti, la disposizione è estremamente semplice e chiara.

Ubi lex voluit, dixit, ubi noluit, tacuit: il processo è sospeso con esclusivo riferimento a due casi, quando cioè “è presentata querela di falso” e quando “deve essere decisa in via pregiudiziale una questione sullo stato o la capacità delle persone, salvo che si tratti della capacità di stare in giudizio”.

Non potendosi accordare all’enunciato linguistico un significato diverso (che sia più ristretto o più esteso – come in questo caso) da quello espresso e voluto dal Legislatore, l’art. 295 c.p.c. non si applica.

 

2)      Gli “incidenti probatori”

 

Gli incidenti probatori sono costituiti dalla verificazione della scrittura privata e dalla

querela di falso.

 

E’ noto che nella realtà operativa si può verificare la necessità di disconoscere una scrittura privata, ex articolo 214 del c.p.c. ovvero di porre in essere, ex articolo 216 del c.p.c.la cd. verificazione di una scrittura privata.( si pensi alla scrittura privata acquisita nel corso di una verifica della PT e sottoposta d'ufficio a registrazione ). Da tale assunto sorge spontaneo il seguente interrogativo: sono applicabili al processo tributario l'istituto processuale civilistico del disconoscimento della scrittura privata e la cosiddetta istanza di verificazione ovvero il contribuente può disconoscere il documento prodotto ex adverso ed apparentemente sottoscritto, addossando all'altra parte (ufficio) l'onere dell'istanza di verificazione?

La risposta positiva trova fondamento nel principio d'integrazione di cui all'articolo uno comma secondo, del D.lgs. 546/92. E’ logico supporre, infatti, che il legislatore per situazioni processuali omogenee abbia previsto discipline e conseguenze processuali omogenee e abbia ritenuto, di conseguenza, l'incidente probatorio della verificazione della scrittura privata non incompatibile con l'impianto delineato dal D.lg. 546/92. In buona sostanza, nel prendere atto che il D. Lgs. 546/92 non esclude espressamente l'applicabilità degli articoli 214 e 216 c.p.c. si può rilevare che queste ultime disposizioni, aventi natura secondaria, si pongono in armonia con il principio d'integrazione di cui all'articolo uno secondo comma, del D.lg. 546/92. È evidente che l'applicazione degli istituti de quibus nel processo tributario realizza una equilibrata ponderazione degli interessi in gioco, permette una corretta dialettica processuale, ossia garantisce la parità delle posizioni processuali tra le parti in causa in modo che ciascuna di essa possa svolgere compiutamente le proprie pretese e soprattutto salvaguarda il valore della terzietà del giudice tributario, che conserva una posizione d'equidistanza dall'attore e dal convenuto. Rimane, peraltro, intangibile l’assunto secondo cui un istituto giuridico nel processo tributario può assumere profili applicativi distinti e del tutto originari rispetto all'analogo istituto del processo civile.

 

3)      Disconoscimento

 

La parte contro la quale è prodotta una scrittura privata, se intende disconoscerla, è tenuta a negare formalmente, pur senza l'uso di formule sacramentali (Cassazione sez. 3 sentenza n. 9543 del 1o luglio 2002; Cassazione sez. 1 sentenza n. 10912 del 11 luglio 2003) la propria scrittura o la propria sottoscrizione; infatti, il disconoscimento, che è equiparabile ad una ordinaria eccezione sostanziale, è un onere della parte contro la quale la scrittura privata è prodotta in giudizio. La copia fotostatica di una scrittura privata, della quale non sia stata disconosciuta la conformità all'originale, ha la stessa efficacia probatoria del titolo originale ovvero la copia fotostatica non autenticata si deve ritenere valida, sia nella sua conformità all'originale che nella scrittura e sottoscrizione, se l'altra parte non la disconosce. In caso di disconoscimento dell'autenticità della scrittura o della sottoscrizione è inutilizzabile il documento fotostatico come mezzo di prova, con salvezza della produzione dell'originale da parte di chi intenda avvalersene; peraltro ,ai sensi dell'articolo 2719 del c.c. in caso di disconoscimento della conformità della copia all'originale il giudice può accertare tale conformità anche a mezzo di presunzioni. Il disconoscimento dell'autenticità della sottoscrizione di una scrittura privata senz'altro ammissibile pur se prodotta in copia fotostatica da un lato comporta che se la parte intende avvalersene deve produrre l'originale necessario per la procedura di verificazione; dall'altro detto disconoscimento nel privare d'efficacia probatoria la copia fotostatica implica anche la contestazione dell'esistenza dell'originale. Ai fini del disconoscimento di una scrittura privata, ai sensi dell'articolo 214 del c.p.c. pur non occorrendo alcuna formula sacramentale o speciale, è necessaria un'impugnazione chiara e univoca anche in ordine all'oggetto della sottoscrizione di cui si nega l'autenticità, specificazione che è indispensabile nell'ipotesi in cui, essendo stata prodotta una pluralità d'atti sottoscritti, soltanto alcuni di questi siano disconosciuti (in tal senso, Cassazione sez. l. Sentenza n. 11911 del 7 agosto 2003). Il disconoscimento di un documento, ai sensi dell'art. 2719 (o dell'art. 2712) c.c. che provenga dalla stessa parte, o dal suo dante causa, o dalla stessa controparte nel giudizio, deve essere specifico, ossia riferito ad una copia di esso concretamente individuata, e successivo, effettuato, di regola, dopo la produzione in giudizio della copia documentale. ; è generico e preventivo il disconoscimento effettuato dalla Amministrazione finanziaria, in una controversia avente ad oggetto il rimborso di tributi indebitamente versati, in quanto privo d'alcun riferimento a documenti determinati e individuati nel loro contenuto e nei loro dati identificativi e anticipato rispetto alla loro produzione in giudizio in fotocopia. Secondo una precisa ricostruzione l'ufficio, a pena di decadenza, deve effettuare il disconoscimento di documenti, depositati dal ricorrente a corredo del ricorso introduttivo (si pensi alle fotocopie dei versamenti di tributi eseguiti dal contribuente), nelle controdeduzioni in sede di costituzione in giudizio entro 60 giorni dal giorno in cui è stato notificato il ricorso introduttivo; il contribuente, a sua volta, a pena di decadenza, già in sede di ricorso introduttivo deve proporre l'eccezione sostanziale di disconoscimento (es. contribuente che avendo impugnato la iscrizione a ruolo per maggiori imposte dovute a seguito d'avviso d'accertamento non opposto e per sanzioni, conseguenti a rettifica della dichiarazione operata con la presentazione del mod. 740, affermi di nulla dovere per non aver mai presentato tale dichiarazione deve necessariamente — essendo tenuto per legge a proporre dinanzi al giudice tributario competente il ricorso contro l'iscrizione a ruolo — disconoscere in tale sede la sottoscrizione apposta in calce alla suddetta dichiarazione, in forza del rinvio operato dall'articolo 1, secondo comma, del D.Lgs. 546/92). Non è, quindi, operante, attesa la peculiarità del processo tributario (rectius: dell'impianto delineato dal D.lg. 546/92), la disciplina processuale civilistica secondo cui il disconoscimento deve avvenire entro la prima udienza ovvero entro la prima risposta successiva alla produzione del documento da disconoscere (Cassazione sez. 3 sentenza n. 09159 del 24 giugno 2002; Cassazione sentenza n. 1525 del 28 gennaio 2004). La tardività del disconoscimento di una scrittura privata da parte del contribuente o dell'ufficio non è rilevabile d'ufficio dalla CT (Cassazione sez. 3 sentenza n. 01300 del 1o febbraio 2002) ma deve essere eccepita dalla parte che tale scrittura abbia prodotto; la parte (contribuente o ufficio) deve eccepire la tardività del disconoscimento entro 10 giorni liberi prima della data di trattazione e nel caso di trattazione della controversia in camera di consiglio entro 5 giorni liberi prima della camera di consiglio. Anche nel processo tributario il disconoscimento è previsto solo per le scritture provenienti dalla parte; quindi, le scritture provenienti da terzi non devono essere disconosciute (Cassazione sez. 3 sentenza n. 12598 del 16 ottobre 2001).Per le scritture proveniente da terzi (come nel caso di un testamento olografo) la contestazione deve essere sollevata nelle forme dell'articolo 221 e seguenti del c.p.c. perché si risolve in un'eccezione di falso (Cassazione sez. 2 sentenza n. 16362 del 30 ottobre 2003) Quando la scrittura è disconosciuta, non ha l'efficacia probatoria di cui all'articolo 2702 c.c. e, pertanto, la parte che ha prodotto la scrittura, se vuole conferire al documento efficacia probatoria ha l'onere di chiedere la verificazione. Il convincimento del giudice di merito tributario circa l'inidoneità di una determinata deduzione difensiva ad integrare gli estremi del disconoscimento della scrittura privata costituisce giudizio di fatto, insindacabile in sede di legittimità. La querela di falso, ex articolo 39 del D.lg. 546/92, e il disconoscimento della scrittura privata sono istituti preordinati a finalità diverse e del tutto indipendenti tra loro. Il disconoscimento investe la provenienza del documento ed è volto ad impedire che all'apparente sottoscrittore di essa sia imputata la dichiarazione sottoscritta; la querela di falso contesta la provenienza delle dichiarazioni contenute nella scrittura. Alla parte nei cui confronti è prodotta una scrittura privata è consentita — oltre alla facoltà di disconoscerla, così facendo carico alla controparte di chiederne la verificazione addossandosi il relativo onere probatorio — anche la possibilità alternativa di proporre, senza con ciò riconoscere né espressamente né tacitamente la scrittura medesima, querela di falso al fine di contestare la genuinità del documento stesso, atteso che, in difetto di citazioni di legge, non può negarsi a detta parte di optare per uno strumento per lei più gravoso ma rivolto al conseguimento di un risultato più ampio e definitivo, quello cioè della completa rimozione del valore del documento con effetti erga omnes e non nei soli riguardi della controparte (Cassazione sez. 2 sentenza n. 19727 del 23 dicembre 2003).

 

4)      Verificazione

 

Nel processo tributario, la parte che abbia prodotto una scrittura privata, disconosciuta dal soggetto che ne appare l'autore, contro il quale è prodotta, non può avvalersene quale prova della propria pretesa, in mancanza di verificazione nelle forme di legge, previa sospensione del giudizio tributario. Questo importante principio è contenuto nella sentenza n. 6184 del 20 marzo 2006 della Corte di cassazione (sezione tributaria), con la quale è stato affermato che la pretesa fiscale può essere altrimenti provata in base a ulteriori indizi e presunzioni rimesse all'apprezzamento del giudice di merito, insindacabile in sede di legittimità se adeguatamente motivato. I giudici di legittimità, nell'escludere per il caso in esame il riconoscimento tacito di cui al combinato disposto dei citati articoli 214 e 215 c.p.c., atteso che il contribuente ne aveva disconosciuto tempestivamente la sottoscrizione, hanno ritenuto che il mancato riconoscimento fuori delle ipotesi previste per legge ne comporta ipso iure (ai sensi dell'articolo 2702 c.c.) l'inefficacia probatoria, stabilendo, nel contempo, che, se la controparte avesse voluto, avrebbe dovuto chiedere la verificazione della scrittura disconosciuta ex articolo 216 c.p.c., ammissibile nel corso del processo tributario mediante richiesta di sospensione, ai sensi degli articoli 1, comma 2, e 39 del Dlgs n. 546 del 1992.

Alla luce di quanto precede, la Suprema corte ha affermato il principio in base al quale, nel processo tributario, la parte che abbia prodotto una scrittura privata, la cui sottoscrizione sia stata disconosciuta in modo tempestivo, può avvalersene quale prova a fondamento della propria pretesa, in mancanza anche di verificazione nelle forme di legge, mediante la preventiva sospensione del giudizio tributario, non escludendo da parte dell'ufficio, per far valere la pretesa tributaria, il ricorso a ulteriori indizi e presunzioni, la cui valenza sarà rimessa all'apprezzamento del giudice di merito, insindacabile, quindi, in sede di legittimità. Secondo tale orientamento  la proposizione della verificazione in via principale, ex articolo 216, comma 2, del c.p.c., avanti al giudice ordinario comporta la sospensione del processo avanti le CT ex articolo 295 del c.p.c. 

A nostro avviso la tesi propugnata dal giudice di legittimità di sospensione del processo tributario non è condivisibile.

Nel processo tributario, la verificazione non può essere richiesta in via principale ma solo in via incidentale nel corso del processo; la questione sulla verificazione della scrittura disconosciuta deve essere risolta dal giudice tributario in sede di cognizione incidentale e non dal giudice ordinario con pronuncia idonea a passare in giudicato, previa sospensione del processo tributario. E’ preferibile ammettere la verificazione della scrittura privata ad opera della Commissione tributaria, poiché la legge ha espressamente previsto con riferimento alla diversa querela di falso la differente figura della sospensione necessaria del processo . Non si può ignorare che ai sensi del vigente articolo 2, comma ultimo, del D.lg. 546/92 «il giudice tributario risolve in via incidentale ogni questione da cui dipende la decisione delle controversie rientranti nella propria giurisdizione, fatta eccezione per le questioni in materia di querela di falso e sullo stato o la capacità delle persone, diversa dalla capacità di stare in giudizio».

Anche innanzi alle CT la domanda di verificazione di cui all'articolo 216 del c.p.c. non richiede l'utilizzo di formule sacramentali .La verificazione ha luogo nel processo tributario come una fase istruttoria incidentale. Il disconoscimento di una scrittura privata (es. attestazione di versamento d'Iva), ritualmente effettuato, comporta l'onere per la controparte che insista nell'avvalersi della scrittura di chiederne la verificazione; la parte che intende valersi della scrittura disconosciuta deve chiederne la verificazione, proponendo i mezzi di prova che ritiene utili e producendo o indicando le scritture che possono servire di comparazione.

Nel procedimento di verificazione della scrittura privata la CT, ancorché abbia disposto ex articolo 7 del D.lg. 546/92 una consulenza grafica sull'autografia di una scrittura disconosciuta, ha il potere-dovere di formare il proprio convincimento sulla base d'ogni altro elemento di prova obiettivamente conferente, senza essere vincolato ad alcuna graduatoria tra le varie fonti d'accertamento della verità. In caso d'esperita verificazione, la CT dispone le cautele opportune per la custodia del documento, stabilisce il termine per il deposito in segreteria delle scritture di comparazione, nomina quando occorre un CTU, può ordinare alla parte di scrivere sotto dettatura (questo in caso d'assenza di scritture di comparazione) anche alla presenza del consulente tecnico. La custodia si attua togliendo la scrittura dal fascicolo e custodendola separatamente cioè sottraendola sia alla disponibilità delle parti sia al processo. Se la parte invitata a comparire personalmente non si presenta o rifiuta di scrivere senza giustificato motivo, la scrittura si può ritenere riconosciuta (art. 219 c.p.c.). Il giudice tributario una volta che sia stato effettuato il disconoscimento procede  all’esame delle scritture di comparazione che si rinvengono negli atti (ad. esempio la sottoscrizione della procura alle liti ) e nei documenti prodotti; può disporre l’eventuale esperimento della scrittura sotto dettatura e se indispensabile la nomina di un consulente tecnico d’ufficio per l’esame calligrafico. La CT provvede alla custodia del documento contestato ed alla nomina, se del caso, di un consulente grafico ovvero ad altre prove ritenute rilevanti. Uguali poteri spettano alla Commissione tributaria Regionale nel caso in cui il disconoscimento riguardi un documento prodotto per la prima volta in appello . La verificazione tende a conferire efficacia probatoria ad un documento che n'è sfornito atteso il disconoscimento mentre la querela di falso tende a sottrarre efficacia probatoria legale ad un documento che la possiede ed ha come oggetto la sua falsità materiale ovvero ideologica. La querela di falso non trova applicazione nei casi in cui si contesti l'autenticità della sottoscrizione di una scrittura privata non riconosciuta; in tal caso, infatti, trova applicazione il procedimento di verificazione previsto dagli articoli 214 e seguenti del c.p.c. Il procedimento di verificazione risulta avere natura sostanzialmente diversa dalla querela di falso, in quanto mira a conferire efficacia probatoria ad un documento che n'è sprovvisto ed è limitato all'accertamento della provenienza della scrittura da chi n'è indicato come suo autore  Sulla domanda di verificazione la CT, stante il divieto delle cd. sentenze parziali di cui all'articolo 35, terzo comma del D.lg. 546/92, pronuncia con la sentenza definitiva finale. La CT nell'ipotesi di consulenza grafica di una scrittura privata disconosciuta è il peritus peritorum e, pertanto, ha il libero apprezzamento delle relazioni predisposte dal consulente tecnico; essa non è vincolata dal parere e dalle conclusioni del consulente tecnico ma è tenuta a dare adeguata motivazione, del proprio dissenso, mediante l'indicazione dei dati e degli elementi di cui si è avvalsa per pervenire alla soluzione adottata.

 

5)      Procedimento

 

La parte che intende valersi della scrittura disconosciuta deve chiederne la verificazione, proponendo i mezzi di prova che ritiene utili e producendo o indicando le scritture che possono servire da comparazione. L’istanza per la verificazione può anche proporsi in via principale con citazione, quando la parte dimostri di avervi interesse (art. 216 c.p.c.). Quando la scrittura è disconosciuta non ha l’efficacia probatoria prevista dall’art. 2702 c.c., quindi la parte che ha prodotto la scrittura, se vuole conferire al documento tale l’efficacia probatoria, ha l’onere di chiedere la verificazione.

La verificazione può essere richiesta in via principale o in via incidentale nel corso del giudizio; per la prima è competente il giudice ordinario (art. 216 c.p.c.), mentre per il procedimento incidentale di verificazione sussiste la competenza della commissione tributaria (accertamento incidentale).

 

L’art. 39 D.lgs. 546/1992, infatti, prevede la sospensione solo per la querela di falso e non per la verifica della scrittura privata.

 

Quando è chiesta la verificazione, la Commissione tributaria:

·                    dispone le cautele opportune per la custodia del documento,

·                    stabilisce il termine per il deposito in segreteria delle scritture di comparazione,

·                    Nomina quando occorre un C.t.u. e determina le scritture di comparazione tra quelle riconosciute o accertate giudizialmente (art. 217 c.p.c.).

 

La Commissione tributaria può ordinare alla parte di scrivere sotto dettatura (questo in caso di assenza di scritture di comparazione), anche alla presenza del consulente tecnico. Se la parte invitata a comparire personalmente non si presenta o rifiuta di scrivere senza giustificato motivo, la scrittura si può ritenere riconosciuta (art. 219 c.p.c.).

 

6)      Querela di falso

La querela di falso presuppone una scrittura privata riconosciuta, autenticata o verificata (accertata come genuina, vera), o un atto pubblico, ed è diretta ad eliminarne la forza probatoria che la legge riconosce a tali documenti.

Può proporsi tanto in via principale quanto in corso di causa, in qualunque stato e grado di giudizio, finchè la verità del documento non sia stata accertata con sentenza passata in giudicato.

La querela deve contenere, a pena di nullità, l’indicazione degli elementi e delle prove della falsità e deve essere proposta personalmente dalla parte oppure a mezzo di procuratore speciale, con atto di citazione, o con dichiarazione da unirsi al verbale d’udienza (art. 221 c.p.c.).

 

Competente a decidere sulla querela di falso è il giudice ordinario, sia quando la querela di falso è proposta in via principale, sia se proposta nel corso del giudizio tributario. Il processo tributario è sospeso quando è presentata querela di falso (art. 39 D.lgs. 546/1992).

La Commissione tributaria, quando viene impugnato di falso un documento, deve preliminarmente valutare la rilevanza del documento al fini della decisione e procedere all’interpello ex art. 222 c.p.c.: “Quando è proposta querela di falso in corso di causa, il giudice istruttore interpella la parte che ha prodotto il documento se intende valersene in giudizio. Se la risposta è negativa, il documento non è utilizzabile in causa; se è affermativa, il giudice, che ritiene il documento rilevante, autorizza la presentazione della querela nella stessa udienza o in una successiva...”.

 

Quando il documento è stato ritenuto rilevante e l’interpello è positivo (la parte intende avvalersi del documento impugnato), la Commissione sospende il giudizio e rimette le parti davanti al tribunale per relativo procedimento (cfr. Art. 39 D.lgs. 546/1992 e art. 313 c.p.c.).

 

7)      Querela di falso e sospensione del processo.

Con la sentenza n. 4003 del 19/02/2009, la Corte di Cassazione ha fissato degli importanti principi in materia di sospensione del processo tributario disposta ai sensi dell’art. 39 del D.Lgs. n. 546 del 31/12/1992, precisando anzitutto come la giurisprudenza più recente abbia statuito che la mancata sospensione del giudizio, nei casi in cui se ne assuma la necessarietà, integri un vizio della decisione astrattamente idoneo ad inficiare la successiva pronuncia di merito, il quale traducendosi nella violazione di una norma processuale (art. 360, n. 4 c.p.c.) è deducibile con il ricorso per Cassazione (fermo restando l’autonoma impugnabilità delle ordinanze di sospensione con istanza di regolamento di competenza ex art. 42 c.p.c.).

Con queste premesse, la Suprema Corte afferma come, ai fini dell’individuazione dei requisiti necessari affinché venga disposta la sospensione del processo, occorra avere riguardo alla disciplina applicabile che, nel caso trattato, di querela di falso, è quella disposta dell’art. 39 del D.Lgs. n. 546/1992, secondo cui: “Il processo è sospeso quando è presentata querela di falso o deve essere decisa in via pregiudiziale una questione sullo stato o la capacità delle persone, salvo che si tratti della capacità di stare in giudizio.”

E quindi la Cassazione osserva come la norma in questione si limiti a prevedere che il processo possa essere sospeso ogni qual volta sia presentata querela di falso, senza tuttavia che la mancanza di ogni riferimento alla pregiudizialità della decisione (richiamata invece dalla medesima norma con riguardo alle questioni sullo stato o la capacità delle persone) possa assumere particolare rilievo interpretativo, posto che il requisito della pregiudizialità è da ritenersi sicuramente assorbito da quello della rilevanza, nell’ambito della controversia tributaria della cui sospensione si discute, dell’atto impugnato con querela. Con la citata sentenza, la Corte di Cassazione ribadisce, quali presupposti necessari per la una sospensione, in caso di proposizione di querela di falso, la presentazione di una rituale querela e la rilevanza dell’atto colpito dalla querela per la decisione della controversia che dovrebbe essere sospesa, confermando i limiti entro i quali il vaglio del giudice tributario deve spingersi per stabilire la sussistenza o meno dei requisiti per la sospensione del processo.

 

8)      La valutazione del Giudice Tributario.

Ai fini della ritualità della querela, la valutazione deve essere estrinseca e formale e limitarsi alla considerazione della riconoscibilità o meno della proposta querela come atto d’impulso processuale del tipo ipotizzato, escludendo che il giudice tributario possa effettuare una valutazione più pregnante, non prevista dall’art. 39 ed ancor più perché trattasi di un tipo di sindacato spettante ad un giudice non solo diverso ma appartenente a diversa giurisdizione. Quindi il giudice tributario non può compiere un giudizio sommario e prognostico circa la validità o fondatezza della querela, né può valutare l’idoneità dei mezzi di prova offerti dalla parte per privare di efficacia probatoria il documento impugnato.

Per ciò che concerne, invece, alla rilevanza del documento impugnato con querela di falso ai fini della decisione della controversia che dovrebbe essere sospesa, la sentenza in esame chiarisce che, allorquando la querela non colpisca il documento nella sua interezza, il giudizio di rilevanza deve essere effettuato specificamente e analiticamente per ciascun passaggio di ogni atto denunciato di falso.

Deve, infatti, escludersi che possa condursi una valutazione sommaria oppure che questa possa essere surrogata da quella concernente la natura dello specifico dato del quale si denunci la falsità (per escludere che si tratti di circostanza assistita di fede privilegiata e perciò denunciabile con querela di falso), essendo peraltro da rilevare che tale diversa valutazione potrebbe comportare una complessa attività interpretativa sia degli atti impugnati che della stessa querela, non prevista dall’art. 39 d.lgs. 546/92, ed in ogni caso spettante solo al giudice competente a decidere sulla querela medesima.

 

9)      Gli atti oggetto di querela di falso.

Essendo, quello tributario, un processo di tipo documentale, è essenziale un elevato grado di attenzione della lite, in tema di istruzione probatoria, da parte del Giudice. Peraltro, a differenza del rito civile, l'inammissibilità della prova testimoniale, rende la querela di falso uno dei pochi strumenti processuali che possano, sussistendone i presupposti di cui si è riferito, contrastare la valenza delle prove documentali fornite dalle parti, in quanto costituisce il solo strumento per contestare le ri­sultanze estrinseche dell'atto pubblico o della scrittura privata riconosciuta, autenticata o verificata, è disciplinata dagli artt. 221-227 del codice di procedura civile, e si concretizza in una istanza diretta ad accertare - mediante un giudizio civile - l'accertamento della falsità ma­teriale o ideologica di un documento.

 

Per la Corte di Cassazione, si ha falsità materiale ogni qualvolta sussi­sta una divergenza fra autore apparente ed auto­re reale del documento o quando il documento sia stato alterato dopo la sua formazione, men­tre si ha falsità ideologica quando nell'atto so­no contenute attestazioni o dichiarazioni non veritiere.

 

Vediamo quali sono i documenti che, più frequentemente, possono essere oggetto di querela di falso.

 

L’atto per eccellenza, tra quelli che qui interessano, è certamente l'atto pubblico, cioè quello che per sua natura è collegabile alla possibilità di proposizione della querela di falso. L’art. 2699 del codice civile fornisce la definizione di atto pubblico, qualificandolo come "il documen­to redatto, con le richieste formalità, da un no­taio o da altro pubblico ufficiale autorizzato ad attribuirgli pubblica fede nel luogo dove l'atto è formato", mentre il successivo art. 2700 (efficacia del­l'atto pubblico) statuisce che esso "fa piena pro­va, fino a querela di falso, della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha for­mato, nonché delle dichiarazioni delle parti e degli altri fatti che il pubblico ufficiale attesta avvenuti in sua presenza o da lui compiuti". E’ immediatamente evidente il nesso tra le due norme, da cui deriva, ai fini del contra­sto della prova offerta dall'atto pubblico, la  immediata previsione della propo­sizione della querela di falso, mentre per la scrittura privata è necessario un altro passaggio, costituendo proprio il mancato disconoscimento, alla prima udienza utile, della scrittura privata da parte del soggetto contro il quale tale documento è pro­dotto, il fatto che determina il riconoscimento della stessa ad ogni effetto di legge; e quindi, in via esemplificativa, deve riconoscersi il rango della scrittura privata, munita della efficacia conferitale dall'art. 2702 del codice civile, anche alla copia fotostatica o fotografica della scrittura non di­sconosciuta, non solo in ordine alle dichiarazioni ivi contenute ed alla lo­ro provenienza, ma anche in relazione all'auten­ticità dell'eventuale sottoscrizione appostavi, con consequenziale necessità della querela di falso per determinare il venir meno della efficacia probatoria che in tal modo le viene attribuita dalla legge.

 

Il processo verbale di constatazione è il documento preordinato alla de­scrizione di atti o fatti, rilevanti per il diritto, compiuti alla presenza di un soggetto verbaliz­zante, all’uopo incaricato di tale compito, e la sua funzione essenziale è quella di “fo­tografare” fedelmente gli atti e/o i fatti, avvenuti alla presenza del verbalizzanti e, quindi, in questo contesto, il processo verbale di constatazione as­sume carattere di atto pubblico (Cass. 10.2.2006 n. 2949), con il valore probatorio attribuibile allo stesso, con la conseguenza che tale aspetto comporta che i fatti descritti e resi noti al contribuente, attraverso lo stesso “pvc”, si considerano provati fino a querela di falso, ma solo relativamente alla parte del pvc, in cui il pubblico ufficiale descrive operazioni materiali accadute in sua presenza o da lui compiute, non essendo riconosciuto alcun speciale valore probatorio, dalla giurisprudenza di merito e di legittimità, alla parte del verbale che può contenere deduzioni ulteriori ed argomentazioni pre­suntive degli stessi  verificatori.

(Cassazione n. 7671 del 16.05.2012).

 

P.v.c. - Valutazioni dei verbalizzanti

Le valutazioni dei verbalizzanti non sono coperte da alcuna efficacia probatoria privilegiata, sicché gli uffici sono tenuti ad operare una valutazione critica dei dati e degli elementi informativi loro forniti dagli organi competenti a svolgere le indagini, potendo disattendere le relative valutazioni.

 

In conclusione, si può riassumere nella seguente tabella la disciplina dell’efficacia probatoria del “PVC”:

 

Dichiarazione contenuta nel “PVC”                                 Efficacia probatoria

Attestazione degli atti compiuti dai verbalizzanti

                                                                       Efficacia privilegiata ai sensi dell’art. 2700 c.c.

                                                                       (piena prova fino a querela di falso)

Attestazione dei fatti materiali constatati

direttamente dai verificatori

                                                                       Efficacia privilegiata ai sensi dell’art. 2700 c.c.

                                                                       (piena prova fino a querela di falso)

 

Valutazioni critiche dei verbalizzanti             Non costituiscono prova privilegiata

 

 

II documento informatico (si pensi al “visto di formazione e di esecutorietà del ruolo”), quando sottoscritto con firma elettronica qualificata o digitale oppu­re anche con firma elettronica avanzata, acqui­sta di per sé un'efficacia probatoria pari a quella della scrittura privata ai sensi dell'art. 2702 del codice civile, e dunque costituisce piena prova sino a querela di falso della provenienza delle dichiarazioni di chi l’ha “sottoscritto”.

Proprio con riferimento al “ruolo”, attenzione particolare va rivolta alla sentenza n. 16665, deposi­tata il 29 luglio 2011, dalla Suprema Corte di Cassazione che, chiamata a decidere sulla contestata data di for­mazione indicata sul ruolo, ha stabilito che il ruolo, in quanto atto formato da un Pubblico ufficiale, va concepito come atto pubblico pre­sidiato, ai sensi dell'art. 2700 del codice civile, dalla fede pubblica in merito alla provenienza come alla data di formazione, e dunque – di conseguenza - la veridicità di tali elementi può muo­versi solo attraverso l'espletamento della querela di falso in quanto atto formato da un Pubblico ufficiale autorizzato a manifestare al­l'esterno la volontà della Pubblica amministra­zione.

La stessa sentenza cristallizza quindi gli spazi entro i quali il ruolo può esprimere il valore di prova le­gale tipico dell'atto pubblico, e l’efficacia di que­sto tipo di prova, quindi, si espande a tutto il c.d. contenuto estrinseco dell'atto ovvero alla pro­venienza ed alla data di formazione senza influi­re anche sul suo c.d. contenuto intrinseco, ossia alla verità ed esattezza sostanziale di quanto ri­portato nell'atto.

 

Altro atto “tipico” è l’avviso di ricevimento delle raccomandate postali, al cui riguardo la giurisprudenza indica che l'avviso di ricevimento delle raccomandate po­stali ha natura di atto pubblico e che la conse­guente forza certificatoria privilegiata di cui all'art. 2700 del codice civile è contestabile soltan­to a mezzo dell'apposita impugnazione di quere­la di falso.

L’avviso di ricevimento è il documento certificativo dell'avvenuta consegna dell'atto (e, quindi prova del perfezio­namento della notifica), le cui risultanze sono assistite dalla fede privilegiata di cui all'art. 2700 del codice civile in ordine alle dichiarazio­ni delle parti e agli altri fatti che l'agente postale, mediante la sottoscrizione apposta in calce al­l'avviso stesso, attesta avvenuti in sua presenza.

 

Per cui, ove il destinatario dell'atto intenda contestare l'avvenuta esecuzione della notificazione, affermando ad esempio di non aver ricevuto alcun piego oppure di non aver mai apposto la propria firma sull'avviso, deve attivare l'apposito procedimento di querela di falso, e ciò anche nell'ipotesi in cui l'eventuale im­mutazione della realtà fattuale non sia ascrivibile a dolo da parte dell’agente postale, ma soltanto ad una sua imperizia, leggerezza, o negligenza.

 

Solo con querela di falso una cartella notificata al contribuente, ma che riporta una firma falsa mai apposta da quest’ultimo, può essere considerata annullabile in quanto mai formalmente notificata. Il riferimento dei giudici emiliani è alla sentenza di Cassazione n. 24852/2006 in cui veniva stabilito come l’avviso di ricevimento della raccomandata riveste natura di atto pubblico e, di conseguenza, il destinatario che ritenesse la propria firma falsa, ha l’onere di impugnarlo a mezzo di “querela di falso”.

(CTP REGGIO EMILIA N. 169/01/10 DEL 28 SETTEMBRE 2010)

 

Processo tributario: notifica a mezzo posta e cartolina di avviso di ricevimento

Con la sentenza in oggetto la Corte di Cassazione affronta nuovamente l'argomento della notifica degli atti giudiziari a mezzo posta e, nello specifico, l'importanza della cartolina di avviso di ricevimento per il perfezionamento della notifica (con riferimento alle norme contenute nel codice di procedura civile).

Infatti le disposizioni disciplinanti il processo tributario sono completate, nei punti in cui si possono riscontrare delle lacune oppure per rinvio delle stesse norme, a quanto contenuto nel codice di procedura civile; allo stesso modo la giurisprudenza, riguardante quest'ultimo codice, interessa anche le disposizioni tributarie.

(Cassazione civile, sez. tributaria, sentenza 08.05.2006 n° 10506)

 

Di conseguenza la sentenza della Corte Costituzionale n.477 del 2002 non ha limitato i suoi effetti alle notifiche nel processo civile, ma ha modificato anche quelle riguardanti i ricorsi presso le Commissioni Tributarie; da quella data in poi tutti i giudici hanno applicato i dettami della Corte Costituzionale (fino all'ultima novella del codice di procedura civile).

A ciò si deve aggiungere la natura della cartolina di avviso di ricevimento che, al momento della firma da parte di chi riceve l'atto, assume un valore parificabile a quello di un atto pubblico in quanto il postino, sottoscrivendo il documento dopo il ritiro, autentica la firma del ricevente.

Tale funzione certificativa comporta che per sostenere la mancata ricezione del documento o si dimostra che il firmatario non era abilitato al ritiro, oppure si procede con una denuncia di querela di falso (come con tutti gli atti pubblici).

Inoltre la stessa qualità fornisce all'Ufficio Giudicante la certezza della notifica, soprattutto per la data di ricezione.

Quindi, come afferma la sentenza in oggetto, oltre ad altre decisioni sia di merito che di legittimità (vedi per tutte Cassazione 11257 del 2003, 4900 del 2004, 2722 del 2005), la mancata produzione dell'avviso di ricevimento produce l'inesistenza della notifica, con la contestuale impossibilità di una rinnovazione della medesima, l'inammissibilità del ricorso e l' inesistenza di qualunque decisione presa in un giudizio così instaurato.

Diversamente succederebbe se la cartolina fosse allegata all'atto, ma non venisse apposta sull'originale, o sulla copia del destinatario, la relata di notifica: tale mancanza non comporterebbe l'inesistenza della notifica ma una mera irregolarità non inficiante l'eventuale decisione.

In conclusione, la Corte continua a distinguere nettamente tra il momento della consegna dell'atto agli Ufficiali Giudiziari, importante per i termini di impugnazione di un provvedimento, ed il momento della notifica, indicato nella certezza che controparte abbia ricevuto il documento che mantiene sempre la sua funzione di atto recettizio (con delle suddivisioni ancora più specifiche, se la giurisprudenza distingue anche tra casi di apposizione della relata di notifica o allegazione dell'avviso di ricevimento).

Tale separazione è importante per i contribuenti, in quanto i termini per l'impugnazione dei provvedimenti possono spirare lo stesso giorno in cui il ricorso viene consegnato per la notifica, senza produrre decadenze l'avvenuta ricezione dell'atto fuori termine, che può essere causata da fatti imprevisti.

 

Anche la relata di notificazione di un atto fa fede fino a querela di falso per le attestazioni che riguardano l'attività svolta dall'ufficiale giudiziario proceden­te, la constatazione di fatti avvenuti in sua pre­senza ed il ricevimento delle dichiarazioni resegli, limitatamente al loro contenuto estrinseco, mentre non sono assistite da pubblica fede tutte le altre attestazioni in essa contenute, (come la dichiara­zione del consegnatario di essere addetto alla casa, di essere dipendente o convivente col destinatario) che non sono frutto della diretta percezione del pubblico ufficiale, bensì di informazioni da lui assunte o di indicazioni fornitegli da altri.

Ma anche tali attestazioni sono assistite da una presun­zione di veridicità che può essere superata solo con la prova contraria, che le parti debbono dare rispetto alla diversa qualifica della persona che ha accettato l’atto, rispetto a quanto ri­sulta dalla relata della notifica.

 

Le scritture private provenienti da terzi sono oggetto del contenuto  della sent. n. 15169 del 23 giugno 2010 espresso dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione[1], le quali hanno affermato che possono essere liberamente contestate, non applican­dosi alle stesse la disciplina sostanziale di cui all'art. 2702 del codice civile né quella processu­ale di cui all'art. 214 del codice di procedura ci­vile, atteso che le stesse costituiscono “prove ati­piche” il cui valore probatorio è puramente indi­ziario e che possono quindi contribuire a fonda­re il convincimento del giudice in armonia con altri dati probatori acquisiti al processo, mentre va af­fermata la ne­cessità della tempestiva contestazione e della proposizione della querela di falso per le scritture provenienti da terzi do­tate di una carica di incidenza sostanziale e processuale intrinsicamente elevata. Secondo le SS.UU., la materia deve essere disciplinata da due principi, ove uno ha portata generale, mentre l'altro è di applica­zione speciale. Peraltro, il principio di diritto enunciato dalla predetta sentenza appare composto da due concorrenti affermazioni; quella secondo cui "le scritture pri­vate provenienti da terzi possono essere libe­ramente contestate, non applicandosi alle stesse la disciplina sostanziale di cui all'art. 2702 del codice civile né quella processuale di cui all'art. 214 del codice di procedura civile, visto che le stesse costituiscono prove atipi­che il cui valore probatorio è puramente indi­ziario e che possono quindi contribuire a fon­dare il convincimento del giudice in armonia con altri dati probatori acquisiti al processo"; l’altra, secondo la quale "nel­l'ambito delle scritture private deve riservarsi diverso trattamento a quelle la cui natura le connota di una carica di incidenza sostan­ziale e processuale intrinsecamente elevata, tale da richiedere la querela di falso onde con­testarne la autenticità". In conclusione, per le SS.UU. le scritture private provenienti da terzi non devono essere impugnate con querela di falso, salvo che ci sia un legame specifico tra chi ha sottoscritto l'atto (ad esempio moglie del­l'attore) e le parti in causa.

 

 

Non tutta la relata di notifica è «coperta» dalla pubblica fede

 

La relata di notifica appartiene al genus degli atti pubblici, quindi le affermazioni del pubblico ufficiale relative al loro contenuto estrinseco, i fatti che egli afferma di aver compiuto e quelli che afferma essere avvenuti sono contestabili solo con querela di falso, ai sensi dell’art. 2700 c.c.

Tutte le valutazioni del pubblico ufficiale, così come il contenuto intrinseco delle dichiarazioni di soggetti terzi (ovvero le questioni che presuppongono valutazioni, locuzione che va intesa in senso lato) si presumono, invece, veri sino a prova contraria.

 

Il caso può presentarsi quando il messo afferma di non aver rinvenuto la sede sociale della società.

Se da dati inconfutabili (visure camerali, fotografie, altri atti notificati da diverse amministrazioni pubbliche) emerge che la sede è presente (magari un tantino nascosta), apparirebbe assurdo sostenere la necessità della querela di falso. Occorre privilegiare il buon senso Nonostante l’affermazione contraria sembra essere fatta propria da un certo filone giurisprudenziale (si veda la sentenza 17064 del 2006), si potrebbe ritenere che ciò rientri nell’errore materiale, in quanto tale non contestabile per forza di cose con querela di falso. Oltre a ciò, come sembra ammesso da altre pronunce giurisprudenziali (Cass. 20426 del 2007), si può presumere che l’affermazione di mancato rinvenimento della sede sociale sia frutto di errate informazioni reperite nei pressi del luogo indicato nell’atto notificando. Se così è, il contribuente ben può contestare il contenuto intrinseco delle dichiarazioni in sede fiscale.

In altri termini, nella relata di notifica difficilmente sono presenti anche sintetiche affermazioni sull’attività compiuta dal messo notificatore, egli si limita a compilare la relata affermando di non aver rinvenuto nessuna sede sociale. Allora, è più che lecito presumere che egli, implicitamente, abbia fatto affidamento o su una sua valutazione personale (dovuta probabilmente a negligenza, consistente nel non aver effettuato le opportune ricerche) o su errate indicazioni della gente interpellata nei pressi del luogo di notifica.

Del resto, se la presenza della sede legale della società viene dimostrata in maniera certa e precisa, è palese che l’adozione della metodologia di notifica per gli irreperibili “assoluti” debba comportare la nullità della stessa senza alcuna necessità di querela di falso.

 

10)  Sull’obbligo di sospensione del giudizio

 

L’art. 39 del DLgs. 546/92 prevede che il processo tributario deve essere sospeso quando “è presentata querela di falso o deve essere decisa in via pregiudiziale una questione sullo stato o la capacità delle persone, salvo che si tratti della capacità di stare in giudizio”, e la sospensione dura sino al passaggio in giudicato della sentenza sulla predetta querela.

Può essere l’ipotesi in cui il contribuente ritiene che, in merito alla notificazione dell’atto, la relata di notifica o l’avviso di ricevimento siano stati falsificati dall’agente notificatore o da altro soggetto, essendo indifferente che si tratti di falsità materiale o ideologica.
Nella menzionata fattispecie, trattasi di atti pubblici, la cui veridicità, in merito ai fatti attestati dal pubblico ufficiale (si pensi all’apposizione della data) sono assistiti da pubblica fede, per cui “intaccabili” solo con querela di falso dinanzi al giudice civile (ove, peraltro, è ammessa senza problemi la prova testimoniale).

 

In primo luogo, rammentiamo che il giudice tributario non ha, sempre e comunque, l’obbligo di sospendere il processo quando è stata presentata, in sede civile, la querela di falso, in quanto deve verificare la rilevanza del documento (oggetto di querela) ai fini della decisione (Cass. nn. 4003 del 2009 e 8046 del 2013).

 

Potrebbe succedere che la querela di falso sia stata presentata in merito alla relata di notifica concernente l’atto “presupposto” (avviso di accertamento) e che il contribuente, ottenuta la sospensione del processo contro tale atto, intenda sollecitare la sospensione ai sensi dell’art. 39 del DLgs. 546/92 anche nel processo contro l’atto consequenziale (ruolo, avviso di liquidazione, intimazione ad adempiere).

 

Della questione si è occupata la Commissione tributaria regionale di Milano sezione di Brescia (sentenza n. 697 del 2015), ove i giudici hanno fornito una risposta negativa, in quanto “la querela di falso non è afferente un atto del presente procedimento, ma si riferisce alla notificazione degli avvisi di rettifica oggetto di altro giudizio”.
Si dà rilievo, quindi, all’autonomia dei due atti (accertamento e cartella di pagamento, oppure, volendo riferirsi al caso oggetto della sentenza, accertamento e avviso di liquidazione), che, siccome distinti, godono di vita propria.

 

La Corte di Cassazione, in effetti, ha diverse volte affermato che il processo instaurato contro l’atto susseguente non può essere automaticamente sospeso per la pendenza del ricorso contro l’atto presupposto (Cass. nn. 17937 del 2004 e 28542 del 2011), stante l’autonomia dei due giudizi.


Detta tesi, sul lato strettamente tecnico, può ritenersi corretta, a livello di principio. Nel momento in cui si ricorre contro l’accertamento, l’atto di riscossione ha “vita propria” sino a quando l’accertamento non è annullato dal giudice.


Non a caso, la riscossione prosegue legittimamente nella misura in cui la legge lo consenta, e ciò, come sappiamo, dipende dal tipo di tributo in considerazione.
Ma questa conclusione davvero può essere accettata nell’ipotesi della querela di falso, sebbene, tecnicamente, potrebbe risultare corretta?

 

Entrano in gioco anche i tempi della giustizia civile, che non sono biblici solo nel grado di legittimità come nel contenzioso tributario, ma in tutti i gradi del giudizio.

Se il contribuente presenta querela di falso, il processo contro l’accertamento deve, ex art. 39 del DLgs. 546/92, essere sospeso, e magari sta sospeso per più di vent’anni, se le sentenze di merito vengono impugnate (tant’è che, con una decisione poi chiaramente cassata dalla Suprema Corte, è successo che un giudice tributario abbia dopo anni “riattivato” il processo perché quello civile “non finiva più”, si veda la fattispecie esaminata dalla sentenza della Cassazione n. 9389 del 2007).

Detto tanto, siamo davvero sicuri che il giudice investito del ricorso contro l’avviso di liquidazione o la cartella di pagamento non possa sospendere il processo?
Non sembrano sussistere profili di illegittimità nell’eventuale ordinanza di sospensione, sol perché accertamento e atto esattivo sono provvedimenti distinti.

Del resto, il processo sull’atto presupposto dipende dalla decisione del giudice civile sulla querela di falso, la quale, a parte i tecnicismi sull’autonomia dei due atti, per forza di cose finisce con il ripercuotersi sull’atto esattivo.


È indubbio che se il giudice civile dice che nella relata di notifica o nell’avviso di ricevimento postale è apposta una data o una firma falsa, e per questo l’accertamento viene dichiarato inesistente in quanto non notificato, viene meno anche l’atto susseguente.

 

Corte di Cassazione, sezione VI, ordinanza 3 luglio 2014, n. 15191.

Per contestare i fatti espressi nel p.v.c. della G.d.F. il contribuente deve proporre querela di falso. In tema di accertamenti tributari, il processo verbale di constatazione, redatto dalla Guardia di finanza o dagli altri organi di controllo fiscale, è assistito da fede privilegiata

 

Accertamento fiscale - La notifica è valida anche se la firma è illeggibile

La notifica di un accertamento fiscale immediatamente esecutivo è considerata valida anche se la firma sulla ricevuta della raccomandata a/r è illeggibile.

Ciò, fino alla querela di falso.

Anche se l’avviso di ricevimento sulla raccomandata, con la quale l’agente della riscossione dimostra l’avvenuta consegna dell’avviso di accertamento, riporta una firma illegittima, la notifica e' considerata legittima fino alla querela di falso.

Questo, in sintesi, l’orientamento della Cassazione espresso con sentenza 9337/14.

A parere degli Ermellini, infatti, è sufficiente la semplice attestazione del postino, che è pubblico ufficiale, a dare piena prova al fatto che la notifica sia avvenuta correttamente alla persona indicata nell’accertamento fiscale.

Il contribuente, il quale voglia contestare la legittimità dell’atto, non può farlo con una semplice impugnazione dell’atto notificato, ma deve presentare una querela di falso.

Pertanto, è legittima la consegna mezzo posta dell’avviso di accertamento fiscale anche se è illeggibile la firma apposta sull’avviso di ricevimento della notifica. La stessa si considera avvenuta correttamente fino alla querela di falso da parte del contribuente.

Da ciò che si evince dalla pronuncia esaminata, quindi, è del tutto inutile impugnare le notifiche provenienti dal fisco sostenendo che, dalla ricevuta di ritorno della raccomandata con cui è stato notificato l’atto, il cognome del ricevente non è facilmente decifrabile.

Nonostante la grafia del ricevente sia illeggibile, la consegna deve ritenersi validamente effettuata a mani proprie del destinatario, fino a querela di falso.

 

Accertamento: illegittima la notifica al falso suocero

È illegittima la notifica dell’avviso di accertamento fatta presso la casa del contribuente ad una persona che si comporta come un familiare ma che in realtà non lo è. Infatti, pur godendo la relata di “fede privilegiata”, quest’ultima può essere superata a fronte della documentata contestazione, da parte del notificatario, della qualità di chi ha ricevuto l’atto. A fornire questo interessante principio è la sezione tributaria della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 26501, depositata il 17 dicembre 2014.

Non è valida la notifica dell’atto impositivo consegnato dall’ufficiale giudiziario presso la residenza del contribuente ad un uomo che si qualifica come “persona di famiglia” ma che in realtà è un estraneo, se il contribuente dimostra documentalmente tali circostanze.

La pronuncia è rilevante poiché sembra discostarsi dalle precedenti pronunce della Cassazione (cfr. sentenza n. 184922013) che rimarcavano la fede privilegiata di cui gode la relata di notificazione, intesa come atto del pubblico ufficiale il quale fa piena prova, fino a querela di falso, delle dichiarazioni delle parti che l’ufficiale attesta essere avvenute in sua presenza. Se dunque chi riceve la notifica si qualifica come soggetto idoneo a riceverla, pur non essendolo, e firma la dichiarazione contenuta nella relata, la notifica si considera perfezionata e perfettamente valida.

Con la sentenza in commento, la Suprema Corte sembra fare un passo indietro e ribadire si la fede privilegiata della relata la quale, però, può essere documentalmente superata dal contribuente.

 

L’avviso di ricevimento gode della medesima forza certificatoria di cui è dotata la relazione di una notifica eseguita dall’ufficiale giudiziario e può essere contestato solo con querela di falso

Cassazione, sez. tributaria – Ordinanza n. 9980 del 27 aprile 2010

Secondo la giurisprudenza di legittimità, l’avviso di ricevimento, il quale è parte integrante della relata di notifica, costituisce, ai sensi della legge n. 890 del 1982, art. 4, comma 3, il solo documento idoneo a provare sia l’intervenuta consegna del plico con la relativa data, sia l’identità della persona alla quale la consegna stessa è stata eseguita e che ha sottoscritto l’avviso; esso riveste natura di atto pubblico e, riguardando un’attività legittimamente delegata dall’ufficiale giudiziario all’agente postale ai sensi della citata legge n. 890 del 1982, art. 1, gode della medesima forza certificatoria di cui è dotata la relazione di una notificazione eseguita direttamente dall’ufficiale giudiziario, ovverosia della fede privilegiata attribuita dall’art. 2700 cod. civ., in ordine alle dichiarazioni delle parti e agli altri fatti che l’agente postale, mediante la sottoscrizione apposta sull’avviso di ricevimento, attesta avvenuti in sua presenza; pertanto, il destinatario che intenda contestare l’avvenuta esecuzione della notificazione, affermando di non aver mai ricevuto l’atto ed in particolare di non aver mai apposto la propria firma sull’avviso, ha l’onere di impugnarlo a mezzo della querela di falso, anche se l’immutazione del vero non sia ascrivibile a dolo, ma soltanto ad imperizia, leggerezza o negligenza dell’agente postale (v. Cass. nn. 10506/2006, 24852/2006, oltre che SS.UU. n. 627/2008).

 

11)  Il procedimento

 

Disciplinata dagli artt. 221 e segg. c.p.c., come è noto, configura il procedimento, diretto ad accertare l’autenticità o la falsità della prova documentale. Per giurisprudenza unanime, “la querela di falso, sia essa proposta in via principale ovvero incidentale, ha il fine di privare un atto pubblico (od una scrittura privata riconosciuta) della sua intrinseca idoneità a “far fede”, a servire, cioè, come prova di atti o di rapporti, mirando così, attraverso la relativa declaratoria, a conseguire il risultato di provocare la completa rimozione del valore del documento, eliminandone, oltre all'efficacia sua propria, qualsiasi ulteriore effetto attribuitogli, sotto altro aspetto, dalla legge, e del tutto a prescindere dalla concreta individuazione dell'autore della falsificazione. Ne consegue che la relativa sentenza, eliminando ogni incertezza sulla veridicità o meno del documento, riveste efficacia “erga omnes”, e non solo nei riguardi della controparte presente in giudizio” (Cassaz. civ., sez. I, 20 giugno 2000, n. 8362[2]).

La querela può essere proposta in via principale, con una specifica domanda avente come unico oggetto la dichiarazione della falsità del documento, ovvero in via incidentale, in corso di causa, nella quale viene prodotto un documento considerato rilevante ai fini della decisione, idoneo ad assumere efficacia di fede privilegiata (presupposto, questo, necessario del procedimento di verificazione giudiziale a norma degli artt. 221 e segg. c.p.c.). In via principale, la querela si propone con citazione al giudice competente, ossia al Tribunale, (che, in materia, ha competenza funzionale ed inderogabile, in composizione collegiale, dal momento che sia l’art. 225 c.p.c., (il quale dispone espressamente che “sulla querela di falso pronuncia sempre il collegio”), sia l’art. 221, 3° comma (che prevede l’intervento obbligatorio del pubblico ministero), confermano il principio della collegialità.

Peraltro, anche quando viene proposta incidentalmente, la querela di falso raffigura una azione a sé, posto che persegue un proprio risultato particolare, consistente nell’accertamento della verità o della falsità di un documento rilevante ai fini della decisione della causa principale. E tale accertamento va pronunziato con sentenza che, una volta passata in giudicato, fa stato a tutti gli effetti. Anche in tale eventualità, la competenza a conoscere le cause concernenti la querela di falso è riservata per materia al Tribunale in composizione collegiale. Di conseguenza, il giudice, davanti al quale la querela fosse incidentalmente proposta, dovrà rimettere la causa relativa alla sola querela di falso al Tribunale competente, ai sensi dell’art. 34 c.p.c., disponendo nel contempo la sospensione del processo principale (art. 295 c.p.c.), fino alla decisione della questione del falso.

La regola vale sia quando la causa principale pende davanti al Giudice di pace, ovvero al Tribunale monocratico, oppure davanti alla Corte d’Appello. In questo ultimo caso, la Corte d’Appello, davanti alla quale sia stata proposta querela di falso, è tenuta ex art. 355 c.p.c. a compiere l’indagine preliminare volta ad accertare l’esistenza o meno dei presupposti, che giustificano l’introduzione del giudizio di falso, ossia:

·                    se la querela sia stata ritualmente proposta a norma dell’art. 221 c.p.c.;

·                    e se il documento impugnato di falsità sia rilevante per la decisione della causa.

A seguito dell’esito positivo di detta indagine, la Corte deve sospendere il procedimento di appello, per consentire la riassunzione della causa di falso davanti al Tribunale, in guisa che il relativo giudizio possa svolgersi con la garanzia del doppio grado di giurisdizione.

La querela di falso può essere proposta anche in Cassazione. Tuttavia, in tale circostanza, può essere rivolta solo contro atti e documenti relativi al procedimento, ossia quando riguardi la nullità della sentenza impugnata, l’ammissibilità del ricorso o del controricorso, l’autenticazione delle firme sugli stessi atti e le notificazioni di essi e non quando concerna documenti prodotti in fase di merito, posti a fondamento della sentenza impugnata dal giudice, potendo l’eventuale falsità di essi, se definitivamente accertata nella sede giudiziaria competente, essere fatta valere come motivo di revocazione.

In via incidentale, la querela si propone o con citazione o mediante dichiarazione da unirsi a verbale di udienza, personalmente dalla parte o dal difensore munito di procura speciale. In tale circostanza, la procura deve contenere la specificazione del documento o dei documenti che la parte intende impugnare. Nondimeno, se la procura è conferita al difensore a margine o in calce all’atto di citazione per la proposizione della querela in via principale, tale specificazione non è necessaria, atteso che il collegamento con l’atto su cui è apposta elimina ogni incertezza sull’oggetto di essa.

È legittimato a proporre querela di falso, chiunque abbia interesse a contrastare l’efficacia probatoria di un documento munito di fede privilegiata in relazione ad una pretesa che su di esso si fondi, non esclusa la stessa parte che l’abbia prodotto in giudizio. Spetta poi, al giudice civile ordinario, cui, come ricordato, è devoluta in via esclusiva la cognizione della falsità di un documento (art. 9 e 221 c.p.c.), verificare la legittimazione e l’interesse ad agire di chi propone la querela di falso, ponendosi detti accertamenti quali necessari presupposti della pronuncia di merito.

Oltre a ciò, sempre in tema di presupposti, la querela di falso non può essere proposta se non allo scopo di togliere ad un documento (atto pubblico o scrittura privata), la idoneità a far fede e servire come prova di determinati rapporti, sicché, ove tali finalità non debbano essere perseguite, in quanto non sia impugnato un documento nella sua efficacia probatoria, né debba conseguirsi l’eliminazione del documento medesimo o di una parte di esso, né si debba tutelare la fede pubblica, bensì si controverta soltanto su di un errore materiale incorso nel documento (configurabile nel caso di mera “svista” che non incide sul contenuto sostanziale del documento, rilevabile dal suo stesso contenuto e tale da non esigere una ulteriore indagine di fatto), la querela di falso non è ammissibile.

La querela deve contenere, a pena di nullità, “l’indicazione degli elementi e delle prove della falsità e deve essere proposta personalmente dalla parte o a mezzo di procuratore speciale”. La sottoscrizione dell’atto ad opera della parte personalmente o a mezzo di procuratore speciale costituisce un requisito d’ammissibilità della querela di falso. Secondo la costante giurisprudenza “l’omissione della sottoscrizione personale della parte o del procuratore speciale non può essere sanata successivamente mediante la sottoscrizione personale dell’atto di riassunzione dinanzi al tribunale” (Cassaz. Civ., sez. I, 8 marzo 2005, n. 5040[3]).

Peraltro, la procura speciale idonea a consentire al procuratore la proposizione della querela di falso deve contenere la specificazione del documento o dei documenti che la parte intende impugnare. Tuttavia, la procura speciale, se conferita al difensore a margine o in calce all’atto di citazione per la proposizione della stessa querela in via principale, non necessita di specificazione del documento impugnato, perché il collegamento con l’atto su cui è apposta elimina ogni incertezza sull’oggetto di essa.

L’obbligo di indicazione degli elementi e delle prove della falsità può essere assolto con qualsiasi tipo di prova che sia idoneo all’accertamento del falso, anche per mezzo di presunzioni, e non implica necessariamente la completa e rituale formulazione della prova testimoniale, essendo sufficiente l’indicazione di tale prova e delle circostanze che ne dovrebbero costituire l’oggetto. La norma, per la costante giurisprudenza di legittimità non si pone in contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., atteso che non pone alcun termine perentorio pregiudizievole del diritto di difesa delle parti, limitandosi, invero, a prescrivere quali siano i requisiti necessari per il perfezionamento dell’atto processuale di impugnazione per falsità.

Va detto che solo dopo un travagliato percorso interpretativo, oscillante tra posizioni particolarmente restrittive, si è pervenuti a tale conclusione, secondo cui “l’indicazione degli elementi e delle prove a supporto della querela di falso deve avvenire secondo i modi stabiliti dalla legge processuale e, perciò, ove si tratti di prova testimoniale, mediante indicazione specifica, ai sensi dell’art. 244 c.p.c., delle persone da interrogare e da fatti, formulati in articoli separati, sui quali ciascuna di esse deve essere interrogata, mentre l’esercizio del potere discrezionale del giudice di consentire che detta indicazione avvenga, per quanto riguarda le persone, successivamente non può essere invocato per supplire ad una lacunosa iniziativa della parte che non abbia formulato alcuna richiesta di autorizzazione al differimento dell’adempimento cui era tenuta”, e decisioni improntate a maggiore elasticità per le quali “l’obbligo di indicazione degli elementi e delle prove della falsità non impone necessariamente la completa e rituale formulazione della prova testimoniale, essendo sufficiente l’indicazione di tale prova e delle circostanze che ne dovrebbero costituire l’oggetto; peraltro, il suddetto obbligo può essere assolto con l’indicazione di qualsiasi tipo di prova idoneo all’accertamento del falso, e quindi anche a mezzo di presunzioni”. Tuttavia, sebbene il dato normativo non sembri lasciare grande spazio ad interpretazioni mitigatrici, in considerazione della precisa sanzione di nullità che la disposizione contempla, l’affermazione per la quale la norma non richiederebbe la completa formulazione delle prove, non va intesa come possibilità per il querelante di fornire indicazioni probatorie generiche, ma, semmai, nel giusto senso antiformalista. Ed infatti, l’attuale giurisprudenza, non si limita a valorizzare dati puramente formali, ma ha posto l’accento sulle modalità sostanziali di formulazione dell’atto, che consentivano nella specie di far emergere con chiarezza i fatti oggetto della prova testimoniale ed altrettante precise indicazioni sui soggetti chiamati a rendere la testimonianza.

A seguito della querela di falso proposta in corso di causa, il giudice deve interpellare, ai sensi dell’art. 222 c.p.c., il presentatore del documento, chiedendogli se intenda valersene in giudizio, nel solo caso in cui questi sia colui che voglia giovarsi dell’atto, in quanto la suddetta norma si riferisce per l’interpello a chi esibisce il documento, avendo riguardo all’ipotesi normale, che il presentatore dell’atto si identifichi con la persona che di esso intenda giovarsi.

Il c.d. “interpello” della parte non trova applicazione nel procedimento davanti al giudice di pace, funzionalmente incompetente a conoscerne: in tale eventualità, si applica l’art. 313 c.p.c., in forza del quale, il giudice se riconosce la rilevanza del documento impugnato di falso e se il modo in cui l’impugnazione è proposta è conforme ai detti requisiti di ammissibilità, è tenuto a sospendere il giudizio ed a rimette le parti davanti al tribunale per il relativo procedimento.

Se la risposta è negativa, il documento viene espunto dal procedimento e la querela non ha seguito. Sul punto, pare opportuno rilevare come “la mancata comparizione o la mancata risposta della parte che ha prodotto la scrittura all’interpello rivoltole dal giudice, ai sensi dell’art. 222 c.p.c., equivale a risposta negativa, atteso che, in aderenza alla lettera e allo spirito della norma citata, è richiesta alla parte che ha prodotto il documento impugnato di falso, per la gravità delle conseguenze che ne derivano, una esplicita conferma della volontà di servirsene (già manifestata con la produzione del documento stesso, ma non più sufficiente, di per sè sola, nella nuova situazione processuale determinata dalla proposizione della querela, a consentirne l’uso) e dunque un’esplicita risposta affermativa all'interpello, alla quale non è dato sopperire con un comportamento decisamente equivoco, qual è la renitenza o il silenzio[4]. Alla risposta negativa, secondo l’interpretazione giurisprudenziale, è anche equiparata l’ipotesi in cui la parte medesima, dopo la presentazione della querela, dichiari spontaneamente di rinunziare ad avvalersi del documento, al pari di altri equivalenti contegni processuali, quali le ammissioni contenute negli scritti difensivi. In caso affermativo, invece, il giudice autorizza la presentazione della querela e dispone di conseguenza. Il documento in predicato viene depositato nelle mani del cancelliere e si forma processo verbale di deposito il cui contenuto è analiticamente descritto nell’art. 223 c.p.c.. Qualora il documento si trovi presso terzi, il giudice può ordinarne il sequestro secondo le norme del codice di procedura penale. In questa circostanza, tuttavia, secondo la giurisprudenza, atteso che la legge non commina sanzioni di nullità per il mancato adempimento di tali incombenti, essendo questi posti in funzione della attività ordinatoria da esplicarsi per giungere alla soluzione della controversia, “sia il sequestro sia il processo verbale di deposito del documento relativamente al quale sia stata proposta querela di falso, sono rimessi alla discrezionalità del giudice che deve adottarli, ove ne ravvisi la necessità, in relazione alla peculiarità del caso concreto[5].

La falsità del documento viene accertata sulla scorta dei mezzi di prova dedotti dalle parti e ammessi dal giudice, sulla scorta della loro rilevanza e idoneità, il quale ne disciplina anche i modi e i termini della loro assunzione.

In conclusione della fase decisoria, possono configurarsi tre possibili situazioni: a) il giudice istruttore sospende l’intero giudizio e rimette le parti al Collegio per la decisione sulla querela; b) il giudice rimette la causa al Collegio tanto per la decisione sulla querela quanto per il merito; c) il giudice scinde il merito della causa, sospendendo parzialmente il processo e disponendo la prosecuzione limitatamente alle domande che reputi indipendenti dalla decisione sul falso.

L’impugnazione avverso tale sentenza va proposta autonomamente davanti alla Corte d’Appello, posto che davanti alla Corte competente, secondo il principio del doppio grado di giurisdizione, si impugnano le sentenze pronunziate dai Tribunali e nel codice di rito non si riscontra una norma derogatoria per la decisione sul falso. Peraltro “qualora la querela di falso sia proposta in via incidentale innanzi al tribunale in grado d’appello e venga emanata un’unica sentenza che decide sia sull’appello che sulla querela di falso, il capo relativo a quest’ultima deve essere impugnato innanzi alla corte d’appello competente in forza del principio del doppio grado di giurisdizione”.

Quindi, per la Corte di Cassazione, “la sentenza che decide sulla querela è soggetta ai normali mezzi di impugnazione, e ciò quand’anche il procedimento di merito nel cui ambito l’atto è stato prodotto sia un procedimento speciale, ovvero abbia come epilogo una sentenza non soggetta ad appello”, in considerazione del fatto che “la sentenza che decide sulla querela di falso non è una sentenza parziale (cioè non definitiva) ma rappresenta l’epilogo di un procedimento che – pur se, come nella specie, attivato in via incidentale – è comunque autonomo che ha per oggetto l’accertamento della falsità o meno di un atto avente fede privilegiata”.[6]

 

12)  Autonomia del procedimento per querela di falso

(Cassazione civile, sez. II, sentenza 28.05.2007 n° 12399)

Con la sentenza che si annota, la Cassazione opera un significativo intervento nell’ambito del processo civile, ribadendo la piena ed assoluta autonomia del procedimento per querela di falso.

In particolare, la Corte ha statuito che “la sentenza che decide sulla querela di falso non è una sentenza parziale (cioè non definitiva) ma rappresenta l’epilogo di un procedimento che – pur se, come nella specie, attivato in via incidentale – è comunque autonomo che ha per oggetto l’accertamento della falsità o meno di un atto avente fede privilegiata”.

La querela di falso, disciplinata dagli artt. 221 e segg. c.p.c., come è noto, configura il procedimento, diretto ad accertare l’autenticità o la falsità della prova documentale.

Per giurisprudenza unanime, “la querela di falso, sia essa proposta in via principale ovvero incidentale, ha il fine di privare un atto pubblico (od una scrittura privata riconosciuta) della sua intrinseca idoneità a “far fede”, a servire, cioè, come prova di atti o di rapporti, mirando così, attraverso la relativa declaratoria, a conseguire il risultato di provocare la completa rimozione del valore del documento, eliminandone, oltre all'efficacia sua propria, qualsiasi ulteriore effetto attribuitogli, sotto altro aspetto, dalla legge, e del tutto a prescindere dalla concreta individuazione dell'autore della falsificazione. Ne consegue che la relativa sentenza, eliminando ogni incertezza sulla veridicità o meno del documento, riveste efficacia “erga omnes”, e non solo nei riguardi della controparte presente in giudizio” (cfr. Cassazione civile, sez. I, 20 giugno 2000, n. 8362).

La querela può essere proposta in via principale, con una specifica domanda avente come unico oggetto la dichiarazione della falsità del documento, ovvero in via incidentale, in corso di causa, nella quale viene prodotto un documento considerato rilevante ai fini della decisione1, idoneo ad assumere efficacia di fede privilegiata (presupposto, questo, necessario del procedimento di verificazione giudiziale a norma degli artt. 221 segg. c.p.c. – cfr. Cassazione civile, sez. I, 29 settembre 2004, n. 19539, secondo la quale ciò comporterebbe l’inammissibilità della querela avverso la “consulenza tecnica d’ufficio”, che si distingue nettamente dalla prova documentale e che, riguardo alle affermazioni, constatazioni o giudizi in essa contenuti, non fa pubblica fede - potendo essere contrastata con tutti i mezzi di prova diversi dalla querela di falso - né vincola il giudice, che può liberamente disattenderla).

 

In via principale, la querela si propone con citazione al giudice competente, ossia al Tribunale, (che, in materia, ha competenza funzionale ed inderogabile - cfr. Cassazione civile, sez. III, 11 dicembre 1991, n. 13384), in composizione collegiale, dal momento che sia l’art. 225 c.p.c., non modificato dalla Legge 26 novembre 1990, n. 353, disponendo espressamente che “sulla querela di falso pronuncia sempre il collegio”, sia l’art. 221, 3° comma, prevedendo l’intervento obbligatorio del pubblico ministero (per gli eventuali riflessi penalistici e per l’eventuale indiretta disposizione di situazioni indisponibili) ex art. 70, 1° comma, n. 5), c.p.c., confermano il principio della collegialità.

Nondimeno, anche quando viene proposta incidentalmente, la querela di falso raffigura una azione a sé, posto che persegue un proprio risultato particolare, consistente nell’accertamento della verità o della falsità di un documento rilevante ai fini della decisione della causa principale. Accertamento da pronunziarsi con sentenza che, una volta passata in giudicato, fa stato a tutti gli effetti.

Anche in tale eventualità, la competenza a conoscere le cause concernenti la querela di falso è riservata per materia al Tribunale in composizione collegiale: per l’effetto, il giudice, davanti al quale la querela fosse incidentalmente proposta, dovrà rimettere la causa relativa alla sola querela di falso al Tribunale competente, ai sensi dell’art. 34 c.p.c., disponendo nel contempo la sospensione del processo principale (art. 295 c.p.c.), fino alla decisione della questione del falso.

La regola vale sia quando la causa principale pende davanti al Giudice di pace, ovvero al Tribunale monocratico, oppure davanti alla Corte d’Appello. In questo ultimo caso, la Corte d’Appello, davanti alla quale sia stata proposta querela di falso, è tenuta ex art. 355 c.p.c. a compiere l’indagine preliminare volta ad accertare l’esistenza o meno dei presupposti, che giustificano l’introduzione del giudizio di falso, ossia:

1.                  se la querela sia stata ritualmente proposta a norma dell’art. 221 c.p.c.;

2.                  e se il documento impugnato di falsità sia rilevante per la decisione della causa.

A seguito dell’esito positivo di detta indagine, la Corte deve sospendere il procedimento di appello, per consentire la riassunzione della causa di falso davanti al Tribunale, in guisa che il relativo giudizio possa svolgersi con la garanzia del doppio grado di giurisdizione.

Vale il caso di ricordare che la querela di falso può essere proposta anche in Cassazione. Tuttavia, in tale circostanza, può essere rivolta solo contro atti e documenti relativi al procedimento, ossia quando riguardi la nullità della sentenza impugnata, l’ammissibilità del ricorso o del controricorso, l’autenticazione delle firme sugli stessi atti e le notificazioni di essi e non quando concerna documenti prodotti in fase di merito, posti a fondamento della sentenza impugnata dal giudice, potendo l’eventuale falsità di essi, se definitivamente accertata nella sede giudiziaria competente, essere fatta valere come motivo di revocazione.

In via incidentale, la querela si propone o con citazione o mediante dichiarazione da unirsi a verbale di udienza, personalmente dalla parte o dal difensore munito di procura speciale. In tale circostanza, la procura deve contenere la specificazione del documento o dei documenti che la parte intende impugnare. Nondimeno, se la procura è conferita al difensore a margine o in calce all’atto di citazione per la proposizione della querela in via principale, tale specificazione non è necessaria, atteso che il collegamento con l’atto su cui è apposta elimina ogni incertezza sull’oggetto di essa.

È legittimato a proporre querela di falso, chiunque abbia interesse a contrastare l’efficacia probatoria di un documento munito di fede privilegiata in relazione ad una pretesa che su di esso si fondi, non esclusa la stessa parte che l’abbia prodotto in giudizio. Spetta poi, al giudice civile ordinario, cui, come ricordato, è devoluta in via esclusiva la cognizione della falsità di un documento (art. 9 e 221 c.p.c.), verificare la legittimazione e l’interesse ad agire di chi propone la querela di falso, ponendosi detti accertamenti quali necessari presupposti della pronuncia di merito.

Oltre a ciò, sempre in tema di presupposti, la querela di falso non può essere proposta se non allo scopo di togliere ad un documento (atto pubblico o scrittura privata), la idoneità a far fede e servire come prova di determinati rapporti, sicché, ove siffatte finalità non debbano essere perseguite, in quanto non sia impugnato un documento nella sua efficacia probatoria, né debba conseguirsi l’eliminazione del documento medesimo o di una parte di esso, né si debba tutelare la fede pubblica, bensì si controverta soltanto su di un errore materiale incorso nel documento (configurabile nel caso di mera “svista” che non incide sul contenuto sostanziale del documento, rilevabile dal suo stesso contenuto e tale da non esigere una ulteriore indagine di fatto), la querela di falso non è ammissibile.

A mente dell’art. 221 c.p.c., la querela deve contenere, a pena di nullità, “l’indicazione degli elementi e delle prove della falsità e deve essere proposta personalmente dalla parte o a mezzo di procuratore speciale”. La sottoscrizione dell’atto ad opera della parte personalmente o a mezzo di procuratore speciale costituisce un requisito d’ammissibilità della querela di falso. Secondo la costante giurisprudenza “l’omissione della sottoscrizione personale della parte o del procuratore speciale non può essere sanata successivamente mediante la sottoscrizione personale dell’atto di riassunzione dinanzi al tribunale” (cfr. Cassazione civile, sez. I, 8 marzo 2005, n. 5040).

Peraltro, la procura speciale idonea a consentire al procuratore la proposizione della querela di falso deve contenere la specificazione del documento o dei documenti che la parte intende impugnare. Tuttavia, la procura speciale, se conferita al difensore a margine o in calce all’atto di citazione per la proposizione della stessa querela in via principale, non necessita di specificazione del documento impugnato, perché il collegamento con l’atto su cui è apposta elimina ogni incertezza sull’oggetto di essa.

Per quanto riguarda l’obbligo di indicazione degli elementi e delle prove della falsità, invece, questo può essere assolto con qualsiasi tipo di prova che sia idoneo all’accertamento del falso, anche per mezzo di presunzioni, e non implica necessariamente la completa e rituale formulazione della prova testimoniale, essendo sufficiente l’indicazione di tale prova e delle circostanze che ne dovrebbero costituire l’oggetto. Tale norma, per la costante giurisprudenza di legittimità non si pone in contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., atteso che non pone alcun termine perentorio pregiudizievole del diritto di difesa delle parti, limitandosi, invero, a prescrivere quali siano i requisiti necessari per il perfezionamento dell’atto processuale di impugnazione per falsità.

A tale conclusione, si è giunti dopo un travagliato percorso interpretativo, oscillante tra posizioni particolarmente restrittive, secondo cui “l’indicazione degli elementi e delle prove a supporto della querela di falso deve avvenire secondo i modi stabiliti dalla legge processuale e, perciò, ove si tratti di prova testimoniale, mediante indicazione specifica, ai sensi dell’art. 244 c.p.c., delle persone da interrogare e da fatti, formulati in articoli separati, sui quali ciascuna di esse deve essere interrogata, mentre l’esercizio del potere discrezionale del giudice di consentire che detta indicazione avvenga, per quanto riguarda le persone, successivamente non può essere invocato per supplire ad una lacunosa iniziativa della parte che non abbia formulato alcuna richiesta di autorizzazione a siffatto differimento dell’adempimento cui era tenuta” (cfr. Cassazione civile, sez. I, 15 marzo 1991, n. 2790), e decisioni improntate a maggiore elasticità per le quali “l’obbligo di indicazione degli elementi e delle prove della falsità non impone necessariamente la completa e rituale formulazione della prova testimoniale, essendo sufficiente l’indicazione di tale prova e delle circostanze che ne dovrebbero costituire l’oggetto; peraltro, il suddetto obbligo può essere assolto con l’indicazione di qualsiasi tipo di prova idoneo all’accertamento del falso, e quindi anche a mezzo di presunzioni” (Cassazione civile, sez. lav., 3 febbraio 2001, n. 1537).

Sebbene il dato normativo non sembri lasciare grande spazio ad interpretazioni mitigatrici, in considerazione della precisa sanzione di nullità che la disposizione contempla, tuttavia, l’affermazione per la quale la norma non richiederebbe la completa formulazione delle prove, non va intesa come possibilità per il querelante di fornire indicazioni probatorie generiche, ma, semmai, nel giusto senso antiformalista. L’attuale giurisprudenza, pertanto, non si limita a valorizzare dati puramente formali, ma ha posto l’accento sulle modalità sostanziali di formulazione dell’atto, che consentivano nella specie di far emergere con chiarezza i fatti oggetto della prova testimoniale ed altrettante precise indicazioni sui soggetti chiamati a rendere la testimonianza.

A seguito della querela di falso proposta in corso di causa, il giudice deve interpellare, ai sensi dell’art. 222 c.p.c., il presentatore del documento, chiedendogli se intenda valersene in giudizio, nel solo caso in cui questi sia colui che voglia giovarsi dell’atto, in quanto la suddetta norma si riferisce per l’interpello a chi esibisce il documento, avendo riguardo all’ipotesi normale, che il presentatore dell’atto si identifichi con la persona che di esso intenda giovarsi.

Il c.d. “interpello” della parte non trova applicazione nel procedimento davanti al giudice di pace, funzionalmente incompetente a conoscerne: in tale eventualità, si applica l’art. 313 c.p.c., in forza del quale, il giudice se riconosce la rilevanza del documento impugnato di falso e se il modo in cui l’impugnazione è proposta è conforme ai detti requisiti di ammissibilità, è tenuto a sospendere il giudizio ed a rimette le parti davanti al tribunale per il relativo procedimento.

Se la risposta è negativa, il documento viene espunto dal procedimento e la querela non ha seguito. Sul punto, pare opportuno rilevare come “la mancata comparizione o la mancata risposta della parte che ha prodotto la scrittura all’interpello rivoltole dal giudice, ai sensi dell’art. 222 c.p.c., equivale a risposta negativa, atteso che, in aderenza alla lettera e allo spirito della norma citata, è richiesta alla parte che ha prodotto il documento impugnato di falso, per la gravità delle conseguenze che ne derivano, una esplicita conferma della volontà di servirsene (già manifestata con la produzione del documento stesso, ma non più sufficiente, di per sè sola, nella nuova situazione processuale determinata dalla proposizione della querela, a consentirne l’uso) e dunque un’esplicita risposta affermativa all'interpello, alla quale non è dato sopperire con un comportamento decisamente equivoco, qual è la renitenza o il silenzio” (Cassazione civile, sez. III, 5 novembre 2002, n. 15493).

Non solo. Alla risposta negativa, secondo l’interpretazione giurisprudenziale, è anche equiparata l’ipotesi in cui la parte medesima, dopo la presentazione della querela, dichiari spontaneamente di rinunziare ad avvalersi del documento, al pari di altri equivalenti contegni processuali, quali le ammissioni contenute negli scritti difensivi.

In caso affermativo, invece, il giudice autorizza la presentazione della querela e dispone di conseguenza. Il documento in predicato viene depositato nelle mani del cancelliere e si forma processo verbale di deposito il cui contenuto è analiticamente descritto nell’art. 223 c.p.c.. Qualora, il documento si trovi presso terzi, il giudice può ordinarne il sequestro secondo le norme del codice di procedura penale. In questa circostanza, tuttavia, secondo la giurisprudenza, atteso che la legge non commina sanzioni di nullità per il mancato adempimento di tali incombenti, essendo questi posti in funzione della attività ordinatoria da esplicarsi per giungere alla soluzione della controversia, “sia il sequestro sia il processo verbale di deposito del documento relativamente al quale sia stata proposta querela di falso, sono rimessi alla discrezionalità del giudice che deve adottarli, ove ne ravvisi la necessità, in relazione alla peculiarità del caso concreto” (Cassazione civile, sez. II, 23 dicembre 2003, n. 19727).

La falsità del documento viene accertata sulla scorta dei mezzi di prova dedotti dalle parti e ammessi dal giudice, sulla scorta della loro rilevanza e idoneità, il quale ne disciplina anche i modi e i termini della loro assunzione.

 

All’esito della fase decisoria, possono configurarsi tre possibili situazioni: a) il giudice istruttore sospende l’intero giudizio e rimette le parti al Collegio per la decisione sulla querela; b) il giudice rimette la causa al Collegio tanto per la decisione sulla querela quanto per il merito; c) il giudice scinde il merito della causa, sospendendo parzialmente il processo e disponendo la prosecuzione limitatamente alle domande che reputi indipendenti dalla decisione sul falso.

 

Avverso tale sentenza l’impugnazione va proposta autonomamente davanti alla Corte d’Appello, posto che davanti alla Corte d’Appello competente, secondo il principio del doppio grado di giurisdizione, si impugnano le sentenze pronunziate dai Tribunali e nel codice di rito non si riscontra una norma derogatoria per la decisione sul falso. Addirittura “qualora la querela di falso sia proposta in via incidentale innanzi al tribunale in grado d’appello e venga emanata un’unica sentenza che decide sia sull’appello che sulla querela di falso, il capo relativo a quest’ultima deve essere impugnato innanzi alla corte d’appello competente in forza del principio del doppio grado di giurisdizione” (Cassazione civile, sez. II, 13 aprile 1999, n. 3625).

 

Riprendendo il filo tracciato dalle predette pronunce e allargandone la portata interpretativa, con la pronuncia in commento la Cassazione conclude la propria analisi dell’istituto statuendo chiaramente che “la sentenza che decide sulla querela è soggetta ai normali mezzi di impugnazione, e ciò quand’anche il procedimento di merito nel cui ambito l’atto è stato prodotto sia un procedimento speciale, ovvero abbia come epilogo una sentenza non soggetta ad appello”, in considerazione del fatto che “la sentenza che decide sulla querela di falso non è una sentenza parziale (cioè non definitiva) ma rappresenta l’epilogo di un procedimento che – pur se, come nella specie, attivato in via incidentale – è comunque autonomo che ha per oggetto l’accertamento della falsità o meno di un atto avente fede privilegiata”.

 

13)  La sospensione del processo

 

Articolo 41 - Provvedimenti sulla sospensione e sull'interruzione del processo.

 1. La sospensione è disposta e l'interruzione è dichiarata dal  presidente della sezione con decreto o dalla commissione con ordinanza.

 2. Avverso il decreto del presidente è ammesso reclamo a sensi dell'art. 28.

 

Prendendo le mosse dalla sospensione, va anzitutto chiarito che essa consiste in un momentaneo arresto dello svolgimento del processo, che determina una sorta di stato di quiescenza del medesimo durante il quale è precluso il compimento di qualsiasi attività e, al contempo, è annullato ad ogni effetto il decorso del tempo, dal momento in cui la sospensione è disposta dal giudice a quello nel quale la medesima viene a cessare.

 

Articolo 42 - Effetti della sospensione e dell'interruzione del processo.

1. Durante la sospensione e l'interruzione non possono essere compiuti atti del processo.

2. I termini in corso sono interrotti e ricominciano a decorrere dalla presentazione dell'istanza di cui all'articolo seguente.

 

L’art. 39 del decreto legislativo n. 546 individua le circostanze che impongono al giudice tributario di disporre la sospensione: trattasi, in specie, come detto, delle ipotesi nelle quali è presentata querela di falso – alla quale è equiparato per estensione analogica, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, il disconoscimento della scrittura privata – o deve essere decisa in via pregiudiziale una questione sullo stato o sula capacità delle persone, esclusa peraltro la capacità di stare in giudizio.

 

Il legislatore delegato, quindi, si è uniformato alla disciplina dettata per il contenzioso amministrativo (cfr. Art. 8, secondo comma della l. 6 dicembre 1971, n. 1034 sul giudizio dinanzi ai tribunali amministrativi regionali e art. 28, ultimo comma del R.D. 26 giugno 1924, n. 1054 sul giudizio dinanzi al Consiglio di stato). E in effetti, l’art. 39 sopra citato, nel momento in cui esclude l’obbligo per la commissione di sospendere il processo allorché si tratti di questioni, da un lato, diverse rispetto a quelle da esso espressamente menzionate e, dall’altro, del pari pendenti davanti ad un giudice diverso, qual è per l’appunto ed in specie il giudice ordinario, reca in sé implicito l’ampliamento della sfera della giurisdizione del giudice tributario, la quale viene ad essere estesa alla cognizione, seppure in via meramente incidentale, di dette ultime questioni; ciò che è quanto oggi dispone in termini espliciti l’art. 2 del decreto 546, a seguito delle modifiche introdotte dalla legge n. 448 del 2001.

 

Tanto premesso e precisato, si deve far presente che sull’interpretazione della norma in esame si è manifestato un contrasto netto tra dottrina e giurisprudenza.

La prima, invero e salvo poche eccezioni, ritiene che con essa (norma) il legislatore abbia inteso escludere l’operatività, nel processo tributario, dell’art. 295 c.p.c., in forza del quale il giudice dispone che il giudizio sia sospeso in ogni caso in cui egli stesso o altro giudice debba risolvere una controversia dalla cui definizione dipenda la decisione della causa (cosiddetta sospensione necessaria per pregiudizialità); mentre la seconda, nelle sue massime istanze, ha espresso ripetutamente l’avviso che il divieto di sospensione di cui all’art. 39 del decreto n. 546 concerne soltanto i casi di pregiudizialità esterna, e quindi di controversie pendenti davanti a giurisdizioni diverse; non, invece, quelli di pregiudizialità interna, ossia in cui sia la causa pregiudiziale sia la causa dipendente pendono entrambe davanti al giudice tributario.

 

Volendo prendere posizione sulla disputa, occorre rammentare che il sistema delineato in sede di disciplina del processo civile tende a salvaguardare al massimo il valore dell’armonia delle decisioni, evitando il rischio di giudicati contraddittori. Tale finalità risulta perseguita dal legislatore, in prima battuta, favorendo per quanto possibile il simultaneus processus in ordine alle cause connesse, ivi comprese quelle fra le quali sussiste un rapporto di pregiudizialità-dipendenza (artt. 34 e 40 c.p.c.); quando, poi, la trattazione congiunta non è possibile, per la sussistenza di “competenze forti” o perché le cause connesse pendono in gradi diversi del giudizio, entra in azione l’art. 295 c.p.c., il quale, per garantire il raggiungimento dell’obbiettivo suddetto, contempla la sospensione necessaria del processo sulla causa dipendente fino al passaggio in giudicato della sentenza emessa in ordine alla causa pregiudiziale. Alla luce di siffatto quadro normativo, è dunque certamente condivisibile l’affermazione di autorevole dottrina secondo cui nell’ordinamento processuale civile il giudice della situazione dipendente ha il potere di conoscere incidentalmente della situazione pregiudiziale, tranne allorquando quest’ultima è dedotta in giudizio in via principale; onde, deve ritenersi che detto ordinamento non ammette una cognizione incidenter tantum della situazione pregiudiziale formante oggetto di separata controversia.

 

Questi rilievi possono essere di grande aiuto per risolvere il nostro problema. Quali che siano state le intenzioni sottese alla formulazione dell’art. 39 del decreto n. 546, tale disposizione non si presta a essere intesa in modo certo e univoco nel senso della non applicabilità al processo tributario dell’art. 295 c.p.c..

D’altra parte, l’art. 39 non resta privato di qualunque portata ove si aderisca alla tesi giurisprudenziale, poiché, da un lato, esso è servito a fondare fin dall’emanazione del decreto delegato il potere di cognizione incidentale del giudice tributario in ordine alle questione rientranti nella giurisdizione del giudice ordinario; e, dall’altro, ha consentito l’esplicazione di tale potere pur quando tali ultime questioni formino oggetto di controversia in via principale davanti al giudice loro proprio. In più, e alla fine, l’interpretazione di cui sopra è l’unica in grado di garantire in seno al nostro processo, almeno in una qualche misura, l’armonia dei giudicati, che può anche essere considerato un bene non assoluto, da perseguire a tutti i costi, ma che è sicuramente un bene meritevole di tutela; ciò tanto più se si ha presente che in tale processo non operano i meccanismi predisposti dai citati artt. 34 e 40 c.p.c., essendo per l’appunto quella delle commissioni tributarie una competenza forte, come tale in nessun caso derogabile.

 

14)  Il procedimento

 

Passando ora agli aspetti procedurali, occorre in primo luogo segnalare che la sospensione è disposta dal presidente della sezione con decreto o dalla commissione con ordinanza, a seconda del momento in cui l’evento suscettibile di determinarla viene rilevato (in specie, sarà demandato al presidente di pronunciarsi al riguardo – come si è visto – in sede di esame preliminare del ricorso, ai sensi dell’art. 27, secondo comma del decreto n. 546). Peraltro, quando la sospensione sia disposta a seguito della presentazione della querela di falso, sembra necessario applicare in via analogica le norme che regolano i casi in cui la querela deve essere proposta dinanzi ad un giudice diverso da quello presso il quale pende il giudizio a quo, cosicché il giudice che dichiara la sospensione dovrà anche fissare un termine entro il quale la querela sia proposta dinanzi al giudice civile.

 

Avverso il decreto del presidente è ammesso reclamo a norma dell’art. 28 (vd. Supra), mentre l’ordinanza, in conformità all’orientamento formatosi con riguardo all’analogo provvedimento assunto nell’ambito del processo civile, deve reputarsi non suscettibile d’impugnazione.

 

In secondo luogo, va ricordato che, ai sensi dell’art. 42 del decreto n. 546, il quale riproduce sostanzialmente l’art. 298 c.p.c., durante la sospensione non possono essere compiuti atti del procedimento, pena la loro nullità; può tuttavia essere chiesta la misura cautelare consistente nella sospensione dell’esecuzione dell’atto impugnato (su cui si tornerà nel prosieguo), com’è dato desumere dall’art. 669 quater c.p.c. (applicabile al processo tributario in virtù del rinvio operato dall’art. 1 del decreto legislativo suddetto), con la sola peculiarità che, ove la sospensione sia concessa, non potrà rendersi operante l’obbligo per la commissione di fissare la trattazione della controversia non oltre il termine di novanta giorni dalla pronuncia, che potrà cominciare a decorrere soltanto dopo che il giudizio ha potuto riprendere il suo corso.

 

15)  La ripresa del processo sospeso

 

Una volta cessata la causa che ne ha comportato la sospensione, il processo deve essere riassunto entro il termine perentorio di sei mesi decorrenti dal momento in cui è venuta meno la causa anzidetta; pena, altrimenti, la sua estinzione. Così prevede l’art. 43 del decreto delegato; ma, volendo prestare ossequio a quanto statuito dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 34 del 1970, occorre addivenire a un’interpretazione adeguatrice della norma in questione onde sottrarla altrimenti a inevitabili censure d’illegittimità, ritenendo che il dies a quo del termine per la riassunzione sia da individuare nel momento in cui le parti del processo sospeso hanno acquisito legale conoscenza (mediante comunicazione o notificazione) della cessazione della causa di sospensione.

 

Articolo 43 - Ripresa del processo sospeso o interrotto.

 1. Dopo che e' cessata la causa che ne ha determinato la sospensione il processo continua se entro sei mesi da tale data viene presentata da una delle parti istanza di trattazione al presidente di sezione della commissione, che provvede a norma dell'art. 30.

2. Se entro sei mesi da quando e' stata dichiarata l'interruzione del processo la parte colpita dall'evento o i suoi successori o qualsiasi altra parte presentano istanza di trattazione al presidente di sezione della commissione, quest'ultimo provvede a norma del comma precedente.

3. La comunicazione di cui all'art. 31, oltre che alle altre parti costituite nei luoghi indicati dall'art. 17, deve essere fatta alla parte colpita dall'evento o ai suoi successori personalmente. Entro un anno dalla morte di una delle parti la comunicazione puo' essere effettuata agli eredi collettivamente o impersonalmente nel domicilio eletto o, in mancanza, nella residenza dichiarata dal defunto risultante dagli atti del processo.

La parte colpita dall'evento o i suoi successori possono costituirsi anche solo presentando documenti o memorie o partecipando alla discussione assistiti, nei casi previsti, da difensore incaricato nelle forme prescritte.

 

La riassunzione del giudizio sospeso avviene per il tramite di un’istanza di trattazione diretta al presidente della sezione davanti alla quale pende il ricorso, che adotta i provvedimenti necessari per la ripresa del cammino del processo. A tenore dell’art. 42, dalla presentazione di tale istanza ricominciano a decorrere i termini in corso alla data dell’avvenuta sospensione, interrotti per effetto della stessa; sennonché, anche questa disposizione suscita seri dubbi d’illegittimità costituzionale, dal momento che la ripresa del decorso di detti termini avviene anche nei confronti della parte che non ha provveduto alla presentazione dell’istanza di trattazione e che, pertanto, può ignorarne l’esistenza (per una diversa disciplina si veda l’art. 298 c.p.c., il quale stabilisce che i termini interrotti ricominciano a decorrere dal giorno della nuova udienza fissata nel provvedimento di sospensione o nel decreto all’uopo emesso dal giudice).

 

Prima di concludere, si rendono opportuni ancora due rilievi.

Il primo è che la presenza di un norma come quella contenuta nell’art. 39 induce ad escludere che possa ammettersi nel processo tributario la sospensione su istanza delle parti o concordata.

 

Il secondo è che, viceversa, ben si attagliano a tale processo le ipotesi di cosiddetta sospensione impropria, le quali si differenziano da quella propria per ciò che esse non presuppongono la presenza di due processi bensì di un processo unico in corso, su cui s’innesta un altro processo concernente una questione relativa alla domanda oggetto del primo, che resta sospeso in pendenza del secondo. Ci riferiamo, in particolare e senza pretesa di completezza: a) alla sospensione disposta con l’ordinanza con cui il giudice solleva una questione di legittimità costituzionale rilevante ai fini della decisione e trasmette gli atti del procedimento alla Corte Costituzionale; b) a quella che può verificarsi allorché sia stato proposto regolamento preventivo di giurisdizione ed il giudice non ritenga il ricorso manifestamente inammissibile o la contestazione della giurisdizione manifestamente infondata; c) a quella per pregiudizialità comunitaria; d) a quella che discende dalla presentazione dell’istanza di ricusazione del giudice; e) a quella, infine, del giudizio di cassazione quando contro la stessa sentenza sono proposti tanto il relativo ricorso quanto la revocazione

 

 

16)  Estinzione del processo tributario per inattività delle parti

 

Articolo 45 - Estinzione del processo per inattivita' delle parti.

1. Il processo si estingue nei casi in cui le parti alle quali spetta di proseguire, riassumere o integrare il giudizio non vi abbiano provveduto entro il termine perentorio stabilito dalla legge o dal giudice che dalla legge sia autorizzato a fissarlo.

2. Le spese del processo estinto a norma del comma 1 restano a carico delle parti che le hanno anticipate.

3. L'estinzione del processo per inattivita' delle parti e' rilevata anche d'ufficio solo nel grado di giudizio in cui si verifica e rende inefficaci gli atti compiuti.

4. L'estinzione e' dichiarata dal presidente della sezione con decreto o dalla commissione con sentenza. Avverso il decreto del presidente e' ammesso reclamo alla commissione che provvede a norma dell'art. 28.

 

17)  Estinzione del giudizio per inattività delle parti davanti alla Commissione Tributaria Provinciale

 

Il processo si estingue ogni volta che le parti che devono proseguire, riassumere o integrare il giudizio non vi provvedono nel termine perentorio fissato dalla legge o dal giudice.

In particolare, quando la parte non provvede ad integrare il contraddittorio in presenza di litisconsorzio necessario

L’estinzione del giudizio a seguito di riassunzione con rinvio determina la definitività dell'atto impugnato. Ciò in quanto l'obbligazione tributaria vive di forza propria per effetto dell'atto impositivo ed in esso trova titolo costitutivo, con la conseguenza che la stessa non viene travolta dagli effetti dell'estinzione. È quanto precisato dalla sentenza 5605/2015 della Cassazione .

 

E’ evidente che dall’inattività delle parti (ad esempio dell’Ente impositore) possono derivare danni solo per il ricorrente. Da notare quindi la sproporzione di una penale di siffatta portata derivante dall’omissione di un adempimento che, qualora posto a carico del resistente ente impositore, non avente interesse a porlo in essere, possa procurare un danno (definitività dell’atto impugnato) ad esclusivo carico della controparte ricorrente.

 

18)  Estinzione del giudizio davanti alla Commissione Tributaria Regionale

 

L’estinzione del processo tributario per inattività delle parti, intervenuta in appello, in un giudizio già definito in primo grado con una decisione di fondatezza dell’azione del contribuente, determina la cristallizzazione della situazione giuridica sostanziale come definita dalla sentenza di merito oggetto di impugnazione, che passa in giudicato.

Il caso deciso con sentenza Cassaz. n. 13808/2014 trae origine dal contenzioso tra l’Agenzia delle Entrate e gli eredi di una contribuente che si erano visti notificare dal Fisco una cartella esattoriale per mancato pagamento di imposte, cartella emessa per mancata riassunzione del giudizio d’appello dopo il decesso della madre, vittoriosa in primo grado. In sede di merito, la CTR aveva dato ragione ai contribuenti, confermando quella di primo grado che aveva annullato l’iscrizione a ruolo.

L'Agenzia delle Entrate propone ricorso per cassazione contro la sentenza che aveva annullato la predetta cartella di pagamento, recante in particolare iscrizione a ruolo dell' importo di un avviso di accertamento relativo a maggiori IRPEF ed ILOR, dovute dalla de cuius, e divenuto, secondo l'Ufficio erariale, definitivo, a seguito di estinzione, per mancata riassunzione, del relativo giudizio di appello, interrottosi per decesso della stessa contribuente; nella specie, l’iscrizione a ruolo era stata annullata, ritenendo che la declaratoria di estinzione del giudizio, avente ad oggetto l'impugnazione dell'avviso di accertamento, costituente l'atto-presupposto della cartella esattoriale, intervenuta in appello, aveva determinato il passaggio in giudicato della sentenza, favorevole alla contribuente.

In particolare, i giudici d'appello hanno sostenuto che, nel giudizio tributario, opera l'art. 338 c.p.c., richiamato dall'art. 49, D.Lgs. n. 546/1992, in forza del quale, in caso di estinzione, per inattività delle parti, del procedimento di impugnazione, si determina l'automatico passaggio in giudicato della sentenza impugnata, essendo travolti i soli atti del giudizio di appello. I giudici hanno altresì precisato che detta ipotesi non è sovrapponibile a quella disciplinata dall'art. 63, D.Lgs. n. 546/1992, riguardante l'estinzione dell'intero processo, in caso di mancata riassunzione del giudizio di rinvio dalla Corte Suprema di Cassazione.

L’Agenzia delle Entrate, ricorrendo per cassazione, ha sostenuto che, in caso di estinzione del processo per inattività delle parti, ai sensi dell'art. 45 citato, si estingua l'intero giudizio, comprensivo quindi anche delle sentenze dei precedenti gradi del giudizio, non contenendo detta norma la previsione derogatoria (clausola di c.d. salvezza delle sentenze di merito), presente invece, nel processo civile ordinario di cognizione, nella disposizione dell'art. 310 c.p.c.

La Cassazione ha respinto il ricorso dell’Agenzia delle Entrate.

In particolare, i giudici di Piazza Cavour, nell’affermare il principio di cui in massima, dopo aver operato una significativa ricognizione della normativa applicabile - e premesso che, con riguardo all'ipotesi, che qui interessa, di estinzione, per inattività delle parti, del giudizio di appello, instaurato avverso sentenza di primo grado che, in senso favorevole al contribuente, abbia annullato l'avviso di accertamento, la questione di diritto controversa, vale a dire degli effetti di detta pronuncia sull'atto impositivo, si prospetta nuova, nella giurisprudenza di legittimità -, ha osservato che l'art. 49, D.Lgs. n. 546/1992 ammette l'applicabilità alle impugnazioni delle sentenze delle Commissioni tributarie delle disposizioni generali in tema di impugnazioni contenute nel Codice di procedura civile, sia pure in via residuale, stante la clausola c.d. di "compatibilità" ("fatto salvo quanto disposto nel presente decreto"). In particolare, osservano gli Ermellini, l'operatività nel processo tributario dell'art. 338 c.p.c. (che, si rammenta, sancisce il principio generale secondo il quale l'estinzione del giudizio di impugnazione determina il passaggio in giudicato della sentenza impugnata) non trova ostacolo in una disposizione speciale, dettata per l'estinzione del processo tributario, in fase di impugnazione, con esso incompatibile. Una tale disposizione non è rinvenibile nel comma 3 dell'art. 45, in quanto soltanto con esso il legislatore si è preoccupato di precisare che, anche nel processo tributario, l'estinzione - per inattività delle parti - rende inefficaci gli atti compiuti fino al perfezionamento della fattispecie estintiva, essendo l'estinzione tuttavia rilevabile, anche d'ufficio, "solo nel grado di giudizio in cui si verifica". La pronuncia di estinzione in appello investe pertanto soltanto gli atti del procedimento di gravame; diversa è la disciplina dettata nell'ipotesi di estinzione del giudizio di rinvio, nella quale l'intero processo viene meno.

Ne consegue che l'estinzione del processo tributario, per inattività delle parti, intervenuta in appello, in un giudizio già definito in primo grado con una decisione di fondatezza dell'azione del contribuente, determina la cristallizzazione della situazione giuridica sostanziale, come definita dalla sentenza di merito oggetto di impugnazione, che passa in giudicato.

Di rilievo le conseguenze pratiche della sentenza. Secondo l’interpretazione offerta dalla Suprema Corte di Cassazione, in tale ipotesi, infatti (distinta da quella relativa al giudizio di rinvio a seguito di cassazione della sentenza resa in appello), il fenomeno estintivo non può mantenere in vita il provvedimento impositivo impugnato, ormai travolto e sostituito dal titolo giudiziale che ne ha annullato gli effetti.

 

 

19)  Gli effetti della mancata riassunzione della controversia rinviata dalla Corte di Cassazione alla Commissione Tributaria Regionale

 

Articolo 63 - Giudizio di rinvio.

1. Quando la Corte di cassazione rinvia la causa alla commissione tributaria provinciale o regionale la riassunzione deve essere fatta nei confronti di tutte le parti personalmente entro il termine perentorio di un anno dalla pubblicazione della sentenza nelle forme rispettivamente previste per i giudizi di primo e di secondo grado in quanto applicabili.

2. Se la riassunzione non avviene entro il termine di cui al comma precedente o si avvera successivamente ad essa una causa di estinzione del giudizio di rinvio l'intero processo si estingue.

3. In sede di rinvio si osservano le norme stabilite per il procedimento davanti alla commissione tributaria a cui il processo e' stato rinviato. In ogni caso, a pena d'inammissibilita', deve essere prodotta copia autentica della sentenza di cassazione.

4. Le parti conservano la stessa posizione processuale che avevano nel procedimento in cui e' stata pronunciata la sentenza cassata e non possono formulare richieste diverse da quelle prese in tale procedimento, salvi gli adeguamenti imposti dalla sentenza di cassazione.

5. Subito dopo il deposito dell'atto di riassunzione, la segreteria della commissione adita richiede alla cancelleria della Corte di cassazione la trasmissione del fascicolo del processo.

 

La mancata riassunzione di una controversia, dopo il deposito di una sentenza di Cassazione, fa estinguere l’intero processo, con salvezza degli atti impositivi ex adverso impugnati; riprende efficacia l’originario atto impositivo poiché la sentenza di primo grado è assorbita e sostituita dalla sentenza d’appello mentre quest’ultima è stata annullata in Cassazione.

Tuttavia, non è del tutto corretto affermare che le sentenze del giudizio di merito siano “tamquam non esset”, giacché, per principio generale del diritto processuale, il travolgimento dell’attività processuale svolta trova un limite invalicabile nell’autorità di cosa giudicata che è acquistata da una pronuncia emessa nel corso del processo oppure nelle prescrizioni o decadenze nel frattempo verificatesi.

 

Nell’ipotesi di mancata riassunzione:

- Resta applicabile il giudicato interno formatosi nel processo; si salvano eventuali statuizioni di merito contenute nelle precedenti sentenze passate in giudicato. Le sentenze di primo o secondo grado sopravvivono nella sola parte non toccata dalle successive impugnazioni ossia non si verifica la caducazione di quei capi autonomi delle sentenze non contestati o espressamente accettati che, pertanto, sono divenuti irretrattabili.

 

- Non opera l’effetto sospensivo dei termini di prescrizione, il quale svolge il suo effetto solo in presenza di un giudizio e non anche se detto giudizio si estingue (articolo 2945cc). In seguito all’estinzione del processo viene meno l’efficacia sospensiva della prescrizione collegata alla pendenza del processo e, pertanto, l’esercizio del diritto non sarà più possibile quando dopo l’instaurazione del processo poi estinto sia maturata la prescrizione.

- L’estinzione del giudizio non comporta l’estinzione dell’azione che può essere riproposta a condizione che nel frattempo non siano maturati i termini prescrizionali o decadenziali per il suo esperimento.

 

Occorrerà, quindi, di volta in volta, per ogni singola fattispecie, valutare l’opportunità e l’interesse alla riassunzione del giudizio (si pensi alla mancanza dell'interesse dell’Ufficio a riassumere il processo al fine di imputare al contribuente l’onere di ripresentare l’istanza di rimborso e di riproporre l’azione di rimborso; si pensi all’interesse dell’Ufficio alla riassunzione nell’ipotesi in cui il rimborso sia stato medio tempore concesso in modo indebito), tenendo conto, per ogni singolo caso, sia delle prescrizioni e decadenze eventualmente verificatesi, sia delle statuizioni di merito passate in giudicato interno nel corso del processo poi estinto.

 

In particolare, l’estinzione del processo rende inefficaci gli atti compiuti (art. 310, comma 2, c.p.c.) e, primo fra tutti, il ricorso di parte, atto introduttivo della lite, al quale non può essere attribuito alcun effetto, né sostanziale, né processuale, eccezion fatta per quanto riguarda la prescrizione, per la quale resta fermo l’effetto interruttivo riconosciuto alla domanda giudiziale, dalla cui data comincia a decorrere il nuovo periodo di prescrizione, perdendosi, però, il vantaggio della neutralizzazione del tempo trascorso durante la pendenza del giudizio (art. 2943, comma 1, e art. 2945, comma 3, codice civile).

In buona sostanza, l’estinzione del processo travolge i cd. effetti processuali che gli atti già compiuti hanno prodotto o sono destinati a produrre.

Tra i cd. effetti sostanziali rimane fermo l’effetto interruttivo della prescrizione ex articolo 2945, comma terzo, del c.c. ricollegato alla notifica del ricorso introduttivo; il termine di prescrizione del diritto deve essere computato partendo dal giorno della domanda introduttiva del processo estinto. Peraltro, non interrompono la prescrizione gli atti processuali successivi al ricorso. Per le azioni di rimborso potrà verificarsi che alla declaratoria ex officio d'estinzione del processo sul credito fatto valere dal contribuente si accompagni la riproposizione dell’azione da parte del contribuente, poiché il termine di prescrizione del diritto fatto valere è ancora in corso di maturazione.

Per quanto riguarda, invece, i diritti soggetti a decadenza, ben più gravi sono le conseguenze dell’estinzione del processo, in quanto, mancando l’effetto interruttivo (applicabile solo alla prescrizione), viene a cadere l'effetto conservativo della domanda ex art. 2945 codice civile.

 

Orbene, va allora considerato che, riacquistando piena validità l’atto impositivo, in quanto il ricorso a suo tempo prodotto ha perso l’effetto di impedirne la definitività, la durata del processo, poi dichiarato estinto, può provocare sia la prescrizione, che la decadenza (a seconda delle varie fattispecie impositive) dell’azione di riscossione del tributo.

 

In particolare, per quanto attiene alla riscossione dei tributi, secondo una precisa ricostruzione ermeneutica, deve ritenersi che, resosi definitivo, per effetto dell’estinzione del processo, l’avviso d'accertamento a suo tempo notificato, vada, comunque, rispettato il termine decadenziale per l’iscrizione a ruolo, che, se decorso durante lo svolgimento del processo, renderebbe tardivo il successivo recupero del tributo accertato; sussiste, quindi, secondo tale orientamento, in questo caso, l’interesse dell’ufficio al mantenimento del processo.

 

Peraltro, secondo diverso orientamento, la liquidazione o recupero del tributo troverebbe titolo nella sentenza di cassazione del processo estinto per mancata riassunzione e non nella definitività dell’atto impositivo determinatasi per l’inefficacia del ricorso proposto dal contribuente.

 

Si segnala che l'estinzione del processo tributario, per inattività delle parti, intervenuta in appello, in un giudizio già definito in primo grado con una decisione di fondatezza dell'azione del contribuente, determina la cristallizzazione della situazione giuridica sostanziale come definita dalla sentenza di merito oggetto di impugnazione, che passa in giudicato, non potendo, in tale ipotesi, rimanere in vita il provvedimento impositivo impugnato, ormai travolto dal titolo giudiziale che ne ha annullato gli effetti (Cass., Sez. trib., Sent. 18 giugno 2014, n. 13808).


L'estinzione del giudizio a seguito di riassunzione con rinvio determina la definitività dell'atto impugnato. Ciò in quanto l'obbligazione tributaria vive di forza propria per effetto dell'atto impositivo ed in esso trova titolo costitutivo, con la conseguenza che la stessa non viene travolta dagli effetti dell'estinzione. È quanto precisato dalla sentenza 5605/2015 della Cassazione.

La vicenda giudiziaria.

A seguito di mancata riassunzione innanzi alla Commissione tributaria regionale, previo rinvio della Corte di cassazione, di un giudizio concernente un avviso di accertamento, l'amministrazione finanziaria notificava una cartella di pagamento al fine di recuperare l'imposta dovuta, nonché i relativi interessi e sanzioni. Tale cartella veniva impugnata dal contribuente.

La Commissione tributaria provinciale accoglieva il ricorso con sentenza che veniva confermata in sede di appello. In particolare, i giudici di secondo grado rilevavano che la mancata riassunzione del primo giudizio sull'avviso di accertamento non avrebbe estinto la sentenza di primo grado, favorevole al contribuente, che sarebbe passata in giudicato.
Avverso tale pronuncia proponeva ricorso per cassazione l'agenzia delle Entrate al fine di far valere, in particolare, la violazione dell'articolo 393 del Codice di procedura civile. Resisteva con controricorso incidentale il contribuente.

La normativa di riferimento

Nell'ambito del processo tributario, l'articolo 63 del Dlgs 546/1992 contiene la disciplina del giudizio di rinvio, che si può instaurare a seguito della pronuncia della Suprema Corte che abbia cassato la sentenza impugnata rinviando la causa alla Commissione tributaria provinciale o regionale.

In particolare, in base all'articolo 63, comma 2, del Dlgs 546/1992 , se la riassunzione non avviene entro il termine di un anno dalla pubblicazione della sentenza della Cassazione o si avvera successivamente ad essa una causa di estinzione del giudizio di rinvio, «l'intero processo si estingue» (a tal riguardo si veda la circolare 98/E/1996 ). Similmente l'articolo 393 del Codice di procedura civile stabilisce che «se la riassunzione non avviene entro il termine di cui all'articolo precedente (tre mesi, ndr) o si avvera successivamente ad essa una causa di estinzione del giudizio di rinvio, l'intero processo si estingue; ma la sentenza della Corte di cassazione conserva il suo effetto vincolante anche nel nuovo processo che sia instaurato con la riproposizione della domanda».
Affinché il processo tributario possa considerarsi estinto, non è necessaria alcuna dichiarazione giudiziale di estinzione per inattività delle parti. Qualora peraltro il giudizio venga riassunto da una parte oltre i termini di legge, l'estinzione può essere rilevata anche d'ufficio dal giudice.
L'estinzione del processo non estingue l'azione, che può essere riproposta, a condizione che nel frattempo non siano spirati i termini prescrizionali o decadenziali per il suo esperimento.

 

La sentenza 5605/2015 della Cassazione, nell'accogliere il ricorso del Fisco, ha fornito alcuni chiarimenti in materia di effetti della mancata riassunzione del giudizio a seguito di sentenza della Cassazione con rinvio.

La Cassazione, infatti, ha precisato che «la pronuncia di estinzione del giudizio comporta… il venir meno dell'intero processo e, in forza dei principi in materia di impugnazione dell'atto tributario, la definitività dell'avviso di accertamento e, quindi, l'integrale accoglimento delle ragioni erariali».

Del resto, l'opposizione all'imposizione fiscale costituisce un'«azione di accertamento negativo della legittimità della pretesa fiscale», con la conseguenza che in caso di estinzione del giudizio l'obbligazione tributaria non viene meno, vivendo «di forza propria per effetto dell'atto impositivo stesso ed in esso trova titolo costitutivo». L'atto amministrativo, infatti, «non è un atto processuale bensì l'oggetto dell'impugnazione» che, conseguentemente, non viene travolto dall'effetto estintivo del processo.
In altri termini, secondo la Suprema corte, l'effetto estintivo del giudizio di rinvio determina la caducazione di tutte le sentenze emesse nel corso del processo, in quanto la sentenza della Commissione tributaria regionale, che ha sostituito la sentenza della Commissione tributaria provinciale, è stata annullata dalla sentenza di rinvio della Cassazione, con il solo limite delle parti delle sentenze non oggetto di impugnazione e quindi passate in giudicato (diverso è l'effetto in caso di estinzione del processo per inattività delle parti ex articolo 45 del Dlgs 546/1992 che, invece, determina il passaggio in giudicato della sentenza impugnata).

 

Pertanto, in caso di mancata riassunzione del giudizio a seguito di cassazione con rinvio o in caso di estinzione del giudizio di rinvio, si verifica l'estinzione dell'intero giudizio e, per l'effetto, l'atto tributario impugnato diviene definitivo e si consolida la pretesa tributaria.

Ne deriva che, a partire da tale data, sorge il diritto dell'Amministrazione finanziaria di esigere il credito dovuto nei termini previsti dalla legge.

Pertanto, alla luce delle considerazioni che precedono, la sentenza 5605/2015 ha annullato la sentenza impugnata e, per l'effetto, rinviato, anche per quanto riguarda il pagamento delle spese di lite, ad una diversa sezione della Commissione tributaria regionale.

Si tratta, a ben vedere, di un orientamento consolidato, fatto proprio dalla Cassazione già in precedenti occasioni.

 

Tuttavia va considerato che la riscossione deve avvenire sulla base di una cartella di pagamento da emettere a titolo definitivo entro termini decadenziali, per cui generalmente questa decadenza si è già verificata.

 

Effetti sull’atto impositivo

La mancata riassunzione nei termini di legge determina l’estinzione del processo, non anche la decadenza dell'avviso di accertamento. È quanto emerge dalla sentenza n. 1615/01/14 della Commissione Tributaria Regionale della Calabria.
La controversia ha riguardato un avviso di liquidazione e irrogazione sanzioni per imposta di registro, relativo alla rettifica del valore di un immobile oggetto di vendita-divisione.
I ricorrenti hanno fatto presente che un primo avviso di accertamento era stato annullato dalla CTP con sentenza confermata dalla CTR. Di poi il giudizio di Cassazione, che si era chiuso con il rinvio della causa al giudice di secondo grado; causa che però non era stata riassunta nel termine di legge, circostanza che – sempre a detta dei ricorrenti – aveva determinato non solo l’estinzione del processo, ma anche la decadenza dell'avviso di accertamento e la prescrizione del credito tributario.


Investita del ricorso contro il secondo avviso di liquidazione, la Commissione Provinciale di Crotone ha dato torto ai contribuenti circa la dedotta illegittimità dell'emissione di due avvisi, e ciò in base al principio secondo cui l’estinzione del processo travolge la sentenza, ma non l'atto amministrativo, che è l'oggetto dell'impugnazione. La CTP ha dato torto ai contribuenti anche con riguardo alla dedotta prescrizione del credito tributario.

Ebbene, il verdetto della Provinciale è stato riformato in esito al giudizio d’appello, perché la CTR di Catanzaro ha rilevato la prescrizione del credito tributario in questione.

I rilievi della CTR. Il giudice dell’appello ha richiamato la giurisprudenza della Cassazione secondo cui l'estinzione del giudizio tributario comporta la definitività dell'avviso di accertamento impugnato, giacché quest'ultimo non è un atto processuale, ma l'oggetto dell'impugnazione. La pretesa tributaria vive infatti di forza propria in virtù dell'atto impositivo in cui è stata formalizzata e l’estinzione del processo travolge la sentenza ma non l'atto amministrativo.


Dunque, poiché l'opposizione avverso l'imposizione fiscale integra una azione di mero accertamento negativo della legittimità della pretesa tributaria, l'eventuale estinzione di tale processo di opposizione (ad esempio per mancata riassunzione davanti al giudice del rinvio) “non può implicare l'estinzione dell'obbligazione tributaria, la quale vive di forza propria per effetto dell'atto impositivo stesso, e in esso trova titolo costitutivo”. Tuttavia, osserva la CTR, “nella fattispecie in esame, si deve rilevare che al momento della nuova notificazione dell'avviso di accertamento era ormai decorso il termine decennale di prescrizione. Tale termine, infatti, venuta meno la sospensione derivante dalla pendenza del procedimento ai sensi dell'art. 2945 co. 3 C.C., ha ricominciato a decorrere dalla data dell'atto interruttivo, rappresentato dalla prima notificazione dell'avviso di accertamento (e, dunque, dal 24-1-1996)”.

In conclusione, la CTR della Calabria ha accolto l’appello dei contribuenti con compensazione delle spese.

 

Riscossione di somme pretese con avviso di accertamento a seguito di estinzione del giudizio

Anche in presenza di estinzione del giudizio, la prescrizione non decorre dalla notifica dell’atto impositivo, ma si parte dalla sentenza della Corte di cassazione

 

Con la sentenza 1091/10/14, la Commissione tributaria provinciale di Bologna, si è pronunciata sul tema dell’applicabilità o meno al procedimento tributario, dell’articolo 2945, comma 3, del codice civile, in forza del quale “se il processo si estingue, rimane fermo l’effetto interruttivo e il nuovo periodo di prescrizione comincia dalla data dell’atto interruttivo”.


Più precisamente, la Ctp ha statuito che, nell’ipotesi in cui il contribuente non riassuma la causa davanti alla Commissione tributaria regionale a seguito di sentenza del Collegio supremo che ha cassato con rinvio la precedente sentenza di secondo grado, nel termine di legge:

·                     l’atto impositivo diviene definitivo

·                     il termine per iscrivere a ruolo le somme recate dal predetto incomincia a decorrere dallo spirare del termine che il contribuente aveva a disposizione per riassume il giudizio, a seguito della pronuncia della Cassazione

con susseguente, implicita, pronuncia di inapplicabilità dell’articolo 2945, comma 3, del cc alle fattispecie di estinzione disciplinate dall’articolo 63, comma 2, del Dlgs 546/1992.

Svolgimento del processo

L’ufficio aveva liquidato l’imposta di successione con atto notificato il 20 dicembre 2001.
Il contribuente impugnava giudizialmente l’avviso di liquidazione, ottenendo sentenza a lui favorevole sia in primo che in secondo grado.

L’Agenzia delle Entrate ricorreva allora alla Corte suprema che, con propria sentenza, l’11 aprile 2011, cassava il pronunciamento di secondo grado, con rimessione degli atti alla Commissione tributaria regionale.

Il contribuente non riassumeva il giudizio nell’anno e quarantacinque giorni (per la sospensione feriale) a sua disposizione e, pertanto, l’avviso di liquidazione diveniva definitivo il 26 giugno 2012.

L’ufficio iscriveva a ruolo l’imposta dovuta il 19 febbraio 2013; seguiva la notifica della cartella di pagamento in data 24 aprile 2013.


Il contribuente opponeva la medesima giudizialmente, eccependo:

·                     che la mancata riassunzione avrebbe reso definitiva l’ultima pronuncia resa e non annullata e cioè, nel caso di specie, la pronuncia della Commissione tributaria provinciale

·                     anche se l’avviso di liquidazione opposto fosse divenuto definitivo, lo stesso lo sarebbe divenuto a far data dalla sua notifica (20 dicembre 2001) e, pertanto, il credito in esso recato non avrebbe potuto essere iscritto a ruolo per decorso del termine decennale di prescrizione di cui all’articolo 41, comma 2, del Dlgs 346/1990.

Più precisamente, a detta della parte ricorrente, anche nell’ipotesi di estinzione del giudizio tributario opererebbe l’istituto della “prescrizione istantanea” prevista dall’articolo 2945, comma 3, del codice civile, in forza del quale la prescrizione non rimane sospesa per tutto il giudizio, ma incomincia a decorrere nuovamente dall’ultimo atto notificato alla propria controparte (che, nel caso in esame, era l’avviso di liquidazione stesso).


Sotto il primo motivo di ricorso, l’ufficio si limitava a richiamare la sentenza 5044/2012 della Cassazione, ai sensi della quale “la pronuncia di estinzione del giudizio comporta, ex art. 393 c.p.c., il venir meno dell’intero processo e, in forza dei principi in materia di impugnazione dell’atto tributario, la definitività dell’avviso di accertamento e quindi l’integrale accoglimento delle ragioni erariali.


Riguardo al secondo profilo, le repliche dell’Agenzia si articolavano su una triplice linea difensiva:

·                     prima della sentenza della Cassazione sarebbe stato legalmente impossibile iscrivere a ruolo le somme liquidate e, pertanto, sarebbe stato applicabile al caso di specie l’articolo 2935 del cc, secondo cui “la prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere

·                     il giudizio di opposizione all’atto amministrativo sarebbe equiparabile al giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo, non al giudizio civile ordinario: con la conseguenza che, in analogia a quanto al riguardo dispone l’articolo 653 del codice procedura civile, alla mancata riassunzione del giudizio in sede di rinvio (dalla Cassazione) consegue non già l’estinzione dell’intero procedimento, bensì che “il decreto che non ne sia già munito acquista efficacia esecutiva

·                     richiamo alla sentenza 3040/2008 della Cassazione, che aveva addirittura dichiarato inammissibile una riassunzione – a seguito di sentenza che cassava con rinvio il provvedimento di secondo grado – proposta dall’ufficio, per “difetto di interesse ad agire” in capo allo stesso.

 

Il giudice di prime cure – premesso che si è richiamato alla pronuncia 5044/2012 della Cassazione, per la quale la mancata riassunzione rende definitivo l’atto impositivo – con riferimento al momento dal quale calcolare il decorso della prescrizione (per l’iscrizione a ruolo del credito erariale) ha accolto la prima argomentazione difensiva dell’ufficio, dichiarando che, fino alla sentenza del Collegio supremo, sussiste una impossibilità giuridica dell’Amministrazione finanziaria a iscrivere a ruolo le somme dovute.


Va fatto notare, però, che qualora la sentenza di secondo grado fosse stata parzialmente favorevole all’Agenzia, il termine di prescrizione per iscrivere a ruolo gli importi dovuti sarebbe decorso dalla stessa.

Più precisamente, in ipotesi di sentenza parzialmente favorevole non vi sarebbe stata alcuna impossibilità giuridica a iscrivere a ruolo le somme dovute, già ripetibili in forza dell’articolo 68 del Dlgs 546/1992.

 

20)  Estinzione del giudizio e riscossione – Cassaz. n. 4574 del 6 marzo 2015

Riscossione di somme pretese con avviso di accertamento a seguito di estinzione del giudizio –

L'estinzione del giudizio, causata dall'inattività delle parli e dalla mancata riassunzione della controversia, comporta il venir meno dei dell’intero processo e la conseguente definitività dell'avviso di accertamento.

In sostanza, è come se l'accertamento oggetto del giudizio non fosse mai stato impugnato, dacché lo stesso si considera definitivo trascorsi 60 giorni dalla  sua notifica.

In una tale situazione risulta quasi sempre impossibile, per l'amministrazione, esigere la pretesa tributaria contenuta nell'atto impositivo originario, poiché trova applicazione l'articolo 25 del dpr 602/73, secondo cui la cartella di pagamento deve essere notificata entro il 31 dicembre «del secondo anno successivo a quello in cui l'accertamento è divenuto definitivo».

Il momento di definitività dell'accertamento si individua a partire dalla sua emissione, computando i 60 giorni canonici a disposizione per proporre l'impugnazione, trascorsi inutilmente i quali lo stesso diventa, appunto, definitivo. L'estinzione del giudizio, infatti, vanifica e fa venir meno l'intero processo, ivi compreso il ricorso introduttivo proposto per l'impugnazione dell'avviso.

Dunque, se l'estinzione del processo si verifica in un momento successivo allo spirare del termine stabilito dal citato art. 25 (come è plausibile che sia, nella maggior parte dei casi, considerando la durata dei processi), la pretesa contenuta nell'accertamento diventa inesigibile e l'eventuale cartella emessa è illegittima. Tali conclusioni si traggono dalla lettura della sent. n. 4574/2015, emessa dalla sezione quinta della Corte di cassazione.

 

Non opera, invece, il più lungo termine di prescrizione ordinaria (decennale), poiché non trattasi di pretesa derivante da una sentenza, bensì di pretesa derivante direttamente dall'avviso di accertamento (divenuto definitivo per mancata impugnazione, stante l'estinzione del giudizio e il venir meno dell'intero processo).

In caso di estinzione del processo, quindi, la cartella può essere notificata al massimo entro due anni dalla notifica originaria (e definitività per mancata impugnazione) dell'avviso di accertamento.

 

Le motivazioni della sentenza

L'Agenzia delle entrate proponeva ricorso contro una sentenza della Ctr Campania, favorevole al contribuente, con la quale il giudice aveva confermato l'annullamento di una cartella di pagamento, uniformandosi a quanto già deciso dai colleghi della provinciale di Napoli. La questione verteva attorno ai termini a disposizione dell'amministrazione per la notifica di una cartella esattoriale, emessa per esigere il pagamento di somme derivanti da un avviso di accertamento, divenuto definitivo per l'estinzione del giudizio relativo alla sua originaria impugnazione. Secondo l'Agenzia delle entrate, infatti, si sarebbe dovuto applicare il termine ordinario decennale, in forza di quanto stabilito dall'articolo 2953 del c.c., secondo cui «i diritti per i quali la legge stabilisce una prescrizione più breve di dieci anni, quando riguardo a essi è intervenuta sentenza di condanna passata in giudicato, si prescrivono con il decorso di dieci anni». Di contro, sarebbe illegittima la censurata decisione della Ctr, che aveva optato per l'operatività del termine stabilito dall'articolo 25 del dpr 602/73, in base al quale la cartella può essere notificata entro il secondo anno successivo a quello in cui l'accertamento sia divenuto definitivo.

La Corte di cassazione ha rigettato il ricorso e confermato la decisione dei giudici regionali, seppur con diversa argomentazione rispetto a quella resa nella impugnata sentenza, giudicata «conforme al diritto nel dispositivo, onde esente da censura».

 

«La cartella oggetto di controversia», osservano gli ermellini, «era stata emessa per essere l'accertamento divenuto definitivo a seguito di dichiarazione di estinzione del processo per inattività delle parti».

Come noto, l'estinzione del giudizio comporta il venir meno dell'intero processo e, quindi, «in forza dei principi in materia dì impugnazione dell'atto tributario, la definitività dell'avviso di accertamento». Da ciò deriva «l'inapplicabilità alla fattispecie, caratterizzata dalla mancanza di una sentenza di condanna, dei principi espressi dalle Sezioni unite, con la sentenza n. 25790/2009, la quale ha sancito l'applicabilità della prescrizione nel termine di dieci anni del diritto alla riscossione delle sanzioni amministrative pecuniarie previste per la violazione di norme tributarie, derivante da sentenza passata in giudicato, per diretta applicazione dell'articolo 2953 cod. civ., disciplinante specificamente e in via generale la cosiddetta actio iudicati».

La dichiarazione di estinzione, dunque, travolge l'intero processo, comprese le sentenze e gli atti che lo compongono (tra cui il ricorso introduttivo).

 

Ne discende che la definitività dell'accertamento si manifesta, a causa di una mancata valida impugnazione, decorsi 60 giorni dalla sua originaria notifica; da tale momento, comincia a correre il termine biennale stabilito dall'articolo 25 del dpr 602/73, secondo cui la cartella di pagamento deve essere notificata entro il 31 dicembre «del secondo anno successivo a quello in cui l'accertamento è divenuto definitivo». Se la cartella è notificata oltre tale termine, essa è illegittima.

 

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(fine)

 



[1] In Banca Dati DeJure Giuffrè
[2] In Banca Dati DeJure Giuffrè
[3] In Banca Dati DeJure Giuffrè
[4] Cassaz. Civ., sez. III, 5 novembre 2002, n. 15493, In Banca Dati DeJure Giuffrè .
[5] Cassazione civile, sez. II, 23 dicembre 2003, n. 19727, In Banca Dati DeJure Giuffrè.
[6] Cassazione, sentenza 28.05.2007 n° 12399, In Banca Dati DeJure Giuffrè

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