La sospensione del processo tributario procedimento e
conseguenze
di Giuseppe
Aliano
Università
di Roma La Sapienza Cultore di Diritto Tributario
Sommario
1.Rapporto tra
art. 39 d.lgs. 546/92 e art. 295 c.p.c.; 2. Gli “incidenti probatori”; 3. Disconoscimento; 4. Verificazione;
5. Procedimento; 6. Querela di falso; 7. Querela di falso e sospensione del
processo; 8. La valutazione del Giudice Tributario; 9. Gli
atti oggetto di querela di falso; 10. Sull’obbligo di sospensione del giudizio; 11.
Il procedimento; 12. Autonomia del procedimento
per querela di falso; 13. La
sospensione del processo; 14. Il procedimento; 15. La ripresa del
processo sospeso; 16. Estinzione del processo tributario per inattività delle
parti; 17. Estinzione del giudizio per inattività delle parti davanti alla
Commissione Tributaria Provinciale; 18. Estinzione del giudizio davanti alla
Commissione Tributaria Regionale; 19. Gli
effetti della mancata riassunzione della controversia rinviata dalla Corte di
Cassazione alla Commissione Tributaria Regionale; 20. Estinzione del
giudizio e riscossione– Cassaz. n. 4574 del 6 marzo 2015.
1) Rapporto
tra art. 39 d.lgs. 546/92 e art. 295 c.p.c.
L’art. 1, comma 2, D.Lgs. 546/92 dispone che: “I
giudici tributari applicano le norme del presente decreto e, per quanto da
esse non disposto e con esse compatibili, le norme del codice di procedura
civile”.
Si tratta dunque di stabilire un coordinamento tra la
normativa del processo tributario e quella del processo civile.
Ai sensi dell’art. 295 c.p.c. “Il Giudice dispone
che il processo sia sospeso in ogni caso in cui egli stesso o altro
giudice deve risolvere una controversia dalla cui definizione dipende la
decisione della causa.”.
Non è così nel processo tributario, stante l’espressa
limitazione dell’art. 39:
1. Il processo e' sospeso quando e' presentata querela
di falso o deve essere decisa in via pregiudiziale una questione sullo stato o
la capacita' delle persone, salvo che si tratti della capacita' di stare in
giudizio.
La Corte di Cassazione, dopo plurime oscillazioni, sembra
aver risolto la questione sulla base della distinzione tra pregiudizialità
interna ed esterna intendendo, rispettivamente, quella che intercorre tra
controversie rientranti nella stessa giurisdizione e quella che intercorre
tra cause di giurisdizioni differenti.
Dunque l’art. 39 D.Lgs. 546/92 regolerebbe
esclusivamente i rapporti esterni, cioè i rapporti tra giurisdizione
tributaria e non tributaria (tutti i rapporti al di là dei casi previsti
dall’art. 39), mentre per i rapporti interni, vale a dire tra la giurisdizione
tributaria, deve trovare applicazione l’art. 295 c.p.c. (cfr. in
tal senso Corte di Cassazione, sentenza n. 12008 del 28.5.2014; sentenza n. 421
del 10.1.2014; ordinanza n. 12442 del 2014).
Diversamente si è da sempre atteggiata la dottrina la
quale insiste nel ritenere che la norma tributaria riguardi sia i casi di
pregiudizialità esterna che quelli di pregiudizialità interna (eccetto solo le
ipotesi di rimessione pregiudiziale alla Corte Costituzionale o alla Corte di
Giustizia Europea).
Secondo tale impostazione il legislatore dunque, con l’art.
39, non avrebbe inteso regolare solo i rapporti con le altre giurisdizioni,
bensì anche i casi di pregiudizialità all’interno della
giurisdizione tributaria.
La sospensione ex art. 39 deve perciò ritenersi l’unica
applicabile nel processo tributario.
Sulla questione si è altresì pronunciata, in un’ottica
sicuramente molto aderente al dettato normativo e coerente con lo spirito
del D.Lgs. 546/92, la Corte Costituzionale la quale, con la sentenza
n. 31 del 1998, ha dichiarato infondata la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 39 D.Lgs. 546/92 rispetto agli artt. 3 e 24 Cost.
nella parte in cui non prevede la sospensione necessaria nei casi di
pregiudizialità interna.
L’art. 39, in chiave innovativa rispetto al sistema previgente
e a sostegno della ragionevole durata del processo, ha voluto infatti
limitare i casi di sospensione necessaria del processo lasciando che ogni altra
questione pregiudiziale diversa dalle due contemplate venga decisa
incidentalmente. Tale previsione, afferma la Consulta, non lede né l’art. 3
della Costituzione in quanto rappresenta una scelta legislativa rispettosa del
principio di ragionevolezza, né l’art. 24 poiché il contribuente può far
valere, indipendentemente dal corso o dall’esito del giudizio pregiudiziale,
tutte le sue difese.
Sul piano della littera
legis, infatti, la disposizione è estremamente semplice e chiara.
Ubi lex voluit, dixit, ubi noluit, tacuit: il processo è
sospeso con esclusivo riferimento a due casi, quando cioè “è presentata
querela di falso” e quando “deve essere decisa in via pregiudiziale una
questione sullo stato o la capacità delle persone, salvo che si tratti della
capacità di stare in giudizio”.
Non potendosi accordare all’enunciato linguistico un
significato diverso (che sia più ristretto o più esteso – come in questo caso)
da quello espresso e voluto dal Legislatore, l’art. 295 c.p.c. non si applica.
2) Gli “incidenti probatori”
Gli incidenti probatori sono costituiti dalla verificazione della scrittura privata e
dalla
querela di falso.
E’ noto che nella realtà operativa si può verificare la
necessità di disconoscere una scrittura privata, ex articolo 214 del c.p.c. ovvero di porre in essere, ex
articolo 216 del c.p.c.la cd. verificazione di una scrittura privata.( si pensi
alla scrittura privata acquisita nel corso di una verifica della PT e
sottoposta d'ufficio a registrazione ). Da tale assunto sorge spontaneo il
seguente interrogativo: sono applicabili al processo tributario
l'istituto processuale civilistico del disconoscimento della scrittura privata
e la cosiddetta istanza di verificazione ovvero il contribuente può disconoscere
il documento prodotto ex adverso ed apparentemente sottoscritto,
addossando all'altra parte (ufficio) l'onere dell'istanza di verificazione?
La risposta positiva trova fondamento nel principio d'integrazione di cui
all'articolo uno comma secondo, del D.lgs. 546/92. E’ logico supporre, infatti,
che il legislatore per situazioni processuali omogenee abbia previsto
discipline e conseguenze processuali omogenee e abbia ritenuto, di conseguenza,
l'incidente probatorio della verificazione della scrittura privata non
incompatibile con l'impianto delineato dal D.lg. 546/92. In buona sostanza, nel
prendere atto che il D. Lgs. 546/92 non esclude espressamente l'applicabilità
degli articoli 214 e 216 c.p.c. si può rilevare che queste ultime disposizioni,
aventi natura secondaria, si pongono in armonia con il principio d'integrazione
di cui all'articolo uno secondo comma, del D.lg. 546/92. È evidente che
l'applicazione degli istituti de quibus nel processo
tributario realizza una equilibrata ponderazione degli interessi in
gioco, permette una corretta dialettica processuale, ossia garantisce la parità
delle posizioni processuali tra le parti in causa in modo che ciascuna di essa
possa svolgere compiutamente le proprie pretese e soprattutto salvaguarda il
valore della terzietà del giudice tributario, che conserva una posizione
d'equidistanza dall'attore e dal convenuto. Rimane, peraltro, intangibile
l’assunto secondo cui un istituto giuridico nel processo
tributario può assumere profili applicativi distinti e del tutto
originari rispetto all'analogo istituto del processo civile.
3) Disconoscimento
La parte contro la quale è prodotta una scrittura privata, se
intende disconoscerla, è tenuta a negare formalmente, pur senza l'uso di
formule sacramentali (Cassazione sez. 3 sentenza n. 9543 del 1o
luglio 2002; Cassazione sez. 1 sentenza n. 10912 del 11 luglio 2003) la propria
scrittura o la propria sottoscrizione; infatti, il disconoscimento, che è
equiparabile ad una ordinaria eccezione sostanziale, è un onere della parte
contro la quale la scrittura privata è prodotta in giudizio. La copia
fotostatica di una scrittura privata, della quale non sia stata disconosciuta
la conformità all'originale, ha la stessa efficacia probatoria del titolo
originale ovvero la copia fotostatica non autenticata si deve ritenere valida,
sia nella sua conformità all'originale che nella scrittura e sottoscrizione, se
l'altra parte non la disconosce. In caso di disconoscimento dell'autenticità
della scrittura o della sottoscrizione è inutilizzabile il documento
fotostatico come mezzo di prova, con salvezza della produzione dell'originale
da parte di chi intenda avvalersene; peraltro ,ai sensi dell'articolo 2719 del
c.c. in caso di disconoscimento della conformità della copia all'originale il
giudice può accertare tale conformità anche a mezzo di presunzioni. Il
disconoscimento dell'autenticità della sottoscrizione di una scrittura privata
senz'altro ammissibile pur se prodotta in copia fotostatica da un lato comporta
che se la parte intende avvalersene deve produrre l'originale necessario per la
procedura di verificazione; dall'altro detto disconoscimento nel privare
d'efficacia probatoria la copia fotostatica implica anche la contestazione
dell'esistenza dell'originale. Ai fini del disconoscimento di una scrittura
privata, ai sensi dell'articolo 214 del c.p.c. pur non occorrendo alcuna
formula sacramentale o speciale, è necessaria un'impugnazione chiara e univoca
anche in ordine all'oggetto della sottoscrizione di cui si nega l'autenticità,
specificazione che è indispensabile nell'ipotesi in cui, essendo stata prodotta
una pluralità d'atti sottoscritti, soltanto alcuni di questi siano
disconosciuti (in tal senso, Cassazione sez. l. Sentenza n. 11911 del 7 agosto
2003). Il disconoscimento di un documento, ai sensi dell'art. 2719 (o dell'art.
2712) c.c. che provenga dalla stessa parte, o dal suo dante causa, o dalla
stessa controparte nel giudizio, deve essere specifico, ossia riferito ad una
copia di esso concretamente individuata, e successivo, effettuato, di regola,
dopo la produzione in giudizio della copia documentale. ; è generico e
preventivo il disconoscimento effettuato dalla Amministrazione finanziaria, in
una controversia avente ad oggetto il rimborso di tributi indebitamente
versati, in quanto privo d'alcun riferimento a documenti determinati e
individuati nel loro contenuto e nei loro dati identificativi e anticipato
rispetto alla loro produzione in giudizio in fotocopia. Secondo una precisa
ricostruzione l'ufficio, a pena di decadenza, deve effettuare il
disconoscimento di documenti, depositati dal ricorrente a corredo del ricorso
introduttivo (si pensi alle fotocopie dei versamenti di tributi eseguiti dal
contribuente), nelle controdeduzioni in sede di costituzione in giudizio entro
60 giorni dal giorno in cui è stato notificato il ricorso introduttivo; il
contribuente, a sua volta, a pena di decadenza, già in sede di ricorso
introduttivo deve proporre l'eccezione sostanziale di disconoscimento (es.
contribuente che avendo impugnato la iscrizione a ruolo per maggiori imposte
dovute a seguito d'avviso d'accertamento non opposto e per sanzioni,
conseguenti a rettifica della dichiarazione operata con la presentazione del
mod. 740, affermi di nulla dovere per non aver mai presentato tale
dichiarazione deve necessariamente — essendo tenuto per legge a proporre
dinanzi al giudice tributario competente il ricorso contro l'iscrizione a ruolo
— disconoscere in tale sede la sottoscrizione apposta in calce alla suddetta
dichiarazione, in forza del rinvio operato dall'articolo 1, secondo comma, del
D.Lgs. 546/92). Non è, quindi, operante, attesa la peculiarità del processo tributario (rectius:
dell'impianto delineato dal D.lg. 546/92), la disciplina processuale civilistica
secondo cui il disconoscimento deve avvenire entro la prima udienza ovvero
entro la prima risposta successiva alla produzione del documento da
disconoscere (Cassazione sez. 3 sentenza n. 09159 del 24 giugno 2002;
Cassazione sentenza n. 1525 del 28 gennaio 2004). La tardività del
disconoscimento di una scrittura privata da parte del contribuente o
dell'ufficio non è rilevabile d'ufficio dalla CT (Cassazione sez. 3 sentenza n.
01300 del 1o febbraio 2002) ma deve essere eccepita dalla parte che
tale scrittura abbia prodotto; la parte (contribuente o ufficio) deve eccepire
la tardività del disconoscimento entro 10 giorni liberi prima della data di
trattazione e nel caso di trattazione della controversia in camera di consiglio
entro 5 giorni liberi prima della camera di consiglio. Anche nel processo
tributario il disconoscimento è previsto solo per le scritture
provenienti dalla parte; quindi, le scritture provenienti da terzi non devono
essere disconosciute (Cassazione sez. 3 sentenza n. 12598 del 16 ottobre
2001).Per le scritture proveniente da terzi (come nel caso di un testamento
olografo) la contestazione deve essere sollevata nelle forme dell'articolo 221
e seguenti del c.p.c. perché si risolve in un'eccezione di falso (Cassazione
sez. 2 sentenza n. 16362 del 30 ottobre 2003) Quando la scrittura è
disconosciuta, non ha l'efficacia probatoria di cui all'articolo 2702 c.c. e,
pertanto, la parte che ha prodotto la scrittura, se vuole conferire al
documento efficacia probatoria ha l'onere di chiedere la verificazione. Il
convincimento del giudice di merito tributario circa l'inidoneità di una
determinata deduzione difensiva ad integrare gli estremi del disconoscimento
della scrittura privata costituisce giudizio di fatto, insindacabile in sede di
legittimità. La querela di falso, ex
articolo 39 del D.lg. 546/92, e il disconoscimento della scrittura privata sono
istituti preordinati a finalità diverse e del tutto indipendenti tra loro. Il
disconoscimento investe la provenienza del documento ed è volto ad impedire che
all'apparente sottoscrittore di essa sia imputata la dichiarazione
sottoscritta; la querela di falso contesta la provenienza delle dichiarazioni
contenute nella scrittura. Alla parte nei cui confronti è prodotta una
scrittura privata è consentita — oltre alla facoltà di disconoscerla, così
facendo carico alla controparte di chiederne la verificazione addossandosi il
relativo onere probatorio — anche la possibilità alternativa di proporre, senza
con ciò riconoscere né espressamente né tacitamente la scrittura medesima,
querela di falso al fine di contestare la genuinità del documento stesso,
atteso che, in difetto di citazioni di legge, non può negarsi a detta parte di
optare per uno strumento per lei più gravoso ma rivolto al conseguimento di un
risultato più ampio e definitivo, quello cioè della completa rimozione del
valore del documento con effetti erga omnes e non nei soli riguardi
della controparte (Cassazione sez. 2 sentenza n. 19727 del 23 dicembre 2003).
4) Verificazione
Nel processo tributario, la
parte che abbia prodotto una scrittura privata, disconosciuta dal soggetto che
ne appare l'autore, contro il quale è prodotta, non può avvalersene quale prova
della propria pretesa, in mancanza di verificazione nelle forme di legge,
previa sospensione del giudizio tributario. Questo importante principio è
contenuto nella sentenza n. 6184 del 20 marzo 2006 della Corte di cassazione
(sezione tributaria), con la quale è stato affermato che la pretesa fiscale può
essere altrimenti provata in base a ulteriori indizi e presunzioni rimesse
all'apprezzamento del giudice di merito, insindacabile in sede di legittimità
se adeguatamente motivato. I giudici di legittimità, nell'escludere per
il caso in esame il riconoscimento tacito di cui al combinato disposto dei
citati articoli 214 e 215 c.p.c., atteso che il contribuente ne aveva
disconosciuto tempestivamente la sottoscrizione, hanno ritenuto che il mancato
riconoscimento fuori delle ipotesi previste per legge ne comporta ipso iure
(ai sensi dell'articolo 2702 c.c.) l'inefficacia probatoria, stabilendo, nel
contempo, che, se la controparte avesse voluto, avrebbe dovuto chiedere la
verificazione della scrittura disconosciuta ex articolo 216 c.p.c.,
ammissibile nel corso del processo tributario
mediante richiesta di sospensione, ai sensi degli articoli 1, comma 2, e 39 del
Dlgs n. 546 del 1992.
Alla luce di quanto precede, la Suprema corte ha affermato il
principio in base al quale, nel processo tributario, la
parte che abbia prodotto una scrittura privata, la cui sottoscrizione sia stata
disconosciuta in modo tempestivo, può avvalersene quale prova a fondamento
della propria pretesa, in mancanza anche di verificazione nelle forme di legge,
mediante la preventiva sospensione del giudizio tributario, non escludendo da
parte dell'ufficio, per far valere la pretesa tributaria, il ricorso a
ulteriori indizi e presunzioni, la cui valenza sarà rimessa all'apprezzamento
del giudice di merito, insindacabile, quindi, in sede di legittimità. Secondo tale orientamento la proposizione della verificazione in via
principale, ex articolo 216, comma 2, del c.p.c., avanti al giudice
ordinario comporta la sospensione del processo avanti le CT ex articolo
295 del c.p.c.
A nostro avviso la tesi propugnata dal giudice di legittimità
di sospensione del processo tributario non è
condivisibile.
Nel processo tributario, la
verificazione non può essere richiesta in via principale ma solo in via
incidentale nel corso del processo; la questione sulla verificazione della
scrittura disconosciuta deve essere risolta dal giudice tributario in sede di
cognizione incidentale e non dal giudice ordinario con pronuncia idonea a
passare in giudicato, previa sospensione del processo tributario. E’
preferibile ammettere la verificazione della scrittura privata ad opera della
Commissione tributaria, poiché la legge ha espressamente previsto con
riferimento alla diversa querela di falso la differente figura della
sospensione necessaria del processo . Non si può ignorare che ai sensi del
vigente articolo 2, comma ultimo, del D.lg. 546/92 «il giudice tributario risolve in via incidentale ogni questione da cui
dipende la decisione delle controversie rientranti nella propria giurisdizione,
fatta eccezione per le questioni in materia di querela di falso e sullo stato o
la capacità delle persone, diversa dalla capacità di stare in giudizio».
Anche innanzi alle CT la domanda di verificazione di cui
all'articolo 216 del c.p.c. non richiede l'utilizzo di formule sacramentali .La
verificazione ha luogo nel processo tributario come
una fase istruttoria incidentale. Il disconoscimento di una scrittura privata
(es. attestazione di versamento d'Iva), ritualmente effettuato, comporta
l'onere per la controparte che insista nell'avvalersi della scrittura di
chiederne la verificazione; la parte che intende valersi della scrittura
disconosciuta deve chiederne la verificazione, proponendo i mezzi di prova che
ritiene utili e producendo o indicando le scritture che possono servire di
comparazione.
Nel procedimento di verificazione della scrittura privata la
CT, ancorché abbia disposto ex
articolo 7 del D.lg. 546/92 una consulenza grafica sull'autografia di una
scrittura disconosciuta, ha il potere-dovere di formare il proprio
convincimento sulla base d'ogni altro elemento di prova obiettivamente
conferente, senza essere vincolato ad alcuna graduatoria tra le varie fonti
d'accertamento della verità. In caso d'esperita verificazione, la CT dispone le
cautele opportune per la custodia del documento, stabilisce il termine per il
deposito in segreteria delle scritture di comparazione, nomina quando occorre
un CTU, può ordinare alla parte di scrivere sotto dettatura (questo in caso
d'assenza di scritture di comparazione) anche alla presenza del consulente
tecnico. La custodia si attua togliendo la scrittura dal fascicolo e custodendola
separatamente cioè sottraendola sia alla disponibilità delle parti sia al
processo. Se la parte invitata a comparire personalmente non si presenta o
rifiuta di scrivere senza giustificato motivo, la scrittura si può ritenere
riconosciuta (art. 219 c.p.c.). Il giudice tributario una volta che sia stato
effettuato il disconoscimento procede
all’esame delle scritture di comparazione che si rinvengono negli atti
(ad. esempio la sottoscrizione della procura alle liti ) e nei documenti
prodotti; può disporre l’eventuale esperimento della scrittura sotto dettatura
e se indispensabile la nomina di un consulente tecnico d’ufficio per l’esame
calligrafico. La CT provvede alla custodia del documento contestato ed alla
nomina, se del caso, di un consulente grafico ovvero ad altre prove ritenute
rilevanti. Uguali poteri spettano alla Commissione tributaria Regionale nel
caso in cui il disconoscimento riguardi un documento prodotto per la prima
volta in appello . La verificazione tende a conferire efficacia probatoria ad
un documento che n'è sfornito atteso il disconoscimento mentre la querela di
falso tende a sottrarre efficacia probatoria legale ad un documento che la
possiede ed ha come oggetto la sua falsità materiale ovvero ideologica. La
querela di falso non trova applicazione nei casi in cui si contesti
l'autenticità della sottoscrizione di una scrittura privata non riconosciuta;
in tal caso, infatti, trova applicazione il procedimento di verificazione
previsto dagli articoli 214 e seguenti del c.p.c. Il procedimento di
verificazione risulta avere natura sostanzialmente diversa dalla querela di
falso, in quanto mira a conferire efficacia probatoria ad un documento che n'è
sprovvisto ed è limitato all'accertamento della provenienza della scrittura da
chi n'è indicato come suo autore Sulla
domanda di verificazione la CT, stante il divieto delle cd. sentenze parziali di cui all'articolo 35, terzo
comma del D.lg. 546/92, pronuncia con la sentenza definitiva finale. La CT
nell'ipotesi di consulenza grafica di una scrittura privata disconosciuta è il
peritus peritorum e, pertanto, ha il libero apprezzamento delle relazioni
predisposte dal consulente tecnico; essa non è vincolata dal parere e dalle
conclusioni del consulente tecnico ma è tenuta a dare adeguata motivazione, del
proprio dissenso, mediante l'indicazione dei dati e degli elementi di cui si è
avvalsa per pervenire alla soluzione adottata.
5) Procedimento
La parte che intende valersi della scrittura disconosciuta
deve chiederne la verificazione, proponendo i mezzi di prova che ritiene utili
e producendo o indicando le scritture che possono servire da comparazione.
L’istanza per la verificazione può anche proporsi in via principale con
citazione, quando la parte dimostri di avervi interesse (art. 216 c.p.c.).
Quando la scrittura è disconosciuta non ha l’efficacia probatoria prevista
dall’art. 2702 c.c., quindi la parte che ha prodotto la scrittura, se vuole
conferire al documento tale l’efficacia probatoria, ha l’onere di chiedere la
verificazione.
La verificazione può essere richiesta in via principale o in
via incidentale nel corso del giudizio; per la prima è competente il giudice
ordinario (art. 216 c.p.c.), mentre per il procedimento incidentale di
verificazione sussiste la competenza della commissione tributaria (accertamento
incidentale).
L’art. 39 D.lgs. 546/1992, infatti, prevede la sospensione
solo per la querela di falso e non per la verifica della scrittura privata.
Quando è chiesta la verificazione,
la Commissione tributaria:
·
dispone
le cautele opportune per la custodia del documento,
·
stabilisce
il termine per il deposito in segreteria delle scritture di comparazione,
·
Nomina quando occorre un C.t.u. e
determina le scritture di comparazione tra quelle riconosciute o accertate
giudizialmente (art. 217 c.p.c.).
La Commissione tributaria può ordinare alla parte di scrivere
sotto dettatura (questo in caso di assenza di scritture di comparazione), anche
alla presenza del consulente tecnico. Se la parte invitata a comparire
personalmente non si presenta o rifiuta di scrivere senza giustificato motivo,
la scrittura si può ritenere riconosciuta (art. 219 c.p.c.).
6) Querela
di falso
La querela di falso presuppone una scrittura privata
riconosciuta, autenticata o verificata (accertata come genuina, vera), o un
atto pubblico, ed è diretta ad eliminarne la forza probatoria che la legge
riconosce a tali documenti.
Può proporsi tanto in via principale quanto in corso di
causa, in qualunque stato e grado di giudizio, finchè la verità del documento
non sia stata accertata con sentenza passata in giudicato.
La querela deve contenere, a pena di nullità, l’indicazione
degli elementi e delle prove della falsità e deve essere proposta personalmente
dalla parte oppure a mezzo di procuratore speciale, con atto di citazione, o
con dichiarazione da unirsi al verbale d’udienza (art. 221 c.p.c.).
Competente a decidere sulla querela di falso è il giudice
ordinario, sia quando la querela di falso è proposta in via principale, sia se
proposta nel corso del giudizio tributario. Il processo tributario è sospeso
quando è presentata querela di falso (art. 39 D.lgs. 546/1992).
La Commissione tributaria, quando viene impugnato di falso un
documento, deve preliminarmente valutare la rilevanza del documento al fini
della decisione e procedere all’interpello ex art. 222 c.p.c.: “Quando è
proposta querela di falso in corso di causa, il giudice istruttore interpella
la parte che ha prodotto il documento se intende valersene in giudizio. Se la
risposta è negativa, il documento non è utilizzabile in causa; se è
affermativa, il giudice, che ritiene il documento rilevante, autorizza la
presentazione della querela nella stessa udienza o in una successiva...”.
Quando il documento è stato ritenuto rilevante e l’interpello
è positivo (la parte intende avvalersi del documento impugnato), la Commissione sospende il giudizio e
rimette le parti davanti al tribunale per relativo procedimento (cfr. Art. 39
D.lgs. 546/1992 e art. 313 c.p.c.).
7) Querela
di falso e sospensione del processo.
Con la sentenza n. 4003 del 19/02/2009, la Corte di
Cassazione ha fissato degli importanti principi in materia di sospensione del
processo tributario disposta ai sensi dell’art. 39 del D.Lgs. n. 546 del
31/12/1992, precisando anzitutto come la giurisprudenza più recente abbia
statuito che la mancata sospensione del
giudizio, nei casi in cui se ne assuma la necessarietà, integri un vizio
della decisione astrattamente idoneo ad inficiare la successiva pronuncia di
merito, il quale traducendosi nella violazione di una norma processuale (art.
360, n. 4 c.p.c.) è deducibile con il ricorso per Cassazione (fermo restando
l’autonoma impugnabilità delle ordinanze di sospensione con istanza di
regolamento di competenza ex art. 42 c.p.c.).
Con queste premesse, la Suprema Corte afferma come, ai fini dell’individuazione dei requisiti
necessari affinché venga disposta la sospensione del processo, occorra avere
riguardo alla disciplina applicabile che, nel caso trattato, di querela di falso, è quella disposta dell’art. 39
del D.Lgs. n. 546/1992, secondo cui: “Il processo è sospeso quando è
presentata querela di falso o deve essere decisa in via pregiudiziale una
questione sullo stato o la capacità delle persone, salvo che si tratti della
capacità di stare in giudizio.”
E quindi la Cassazione osserva come la norma in questione si
limiti a prevedere che il processo possa essere sospeso ogni qual volta sia presentata querela di falso, senza tuttavia
che la mancanza di ogni riferimento alla pregiudizialità della decisione (richiamata invece dalla medesima
norma con riguardo alle questioni sullo stato o la capacità delle persone)
possa assumere particolare rilievo interpretativo, posto che il requisito della
pregiudizialità è da ritenersi sicuramente assorbito da quello della rilevanza, nell’ambito della
controversia tributaria della cui sospensione si discute, dell’atto impugnato
con querela. Con la citata sentenza, la Corte di Cassazione ribadisce, quali
presupposti necessari per la una sospensione, in caso di proposizione di
querela di falso, la presentazione di
una rituale querela e la
rilevanza dell’atto colpito dalla querela per la decisione della
controversia che dovrebbe essere sospesa,
confermando i limiti entro i quali
il vaglio del giudice tributario deve spingersi per stabilire la sussistenza o meno dei requisiti per la
sospensione del processo.
8) La
valutazione del Giudice Tributario.
Ai fini della ritualità
della querela, la valutazione deve essere estrinseca e formale e
limitarsi alla considerazione della riconoscibilità o meno della proposta
querela come atto d’impulso processuale del tipo ipotizzato, escludendo che il
giudice tributario possa effettuare una valutazione più pregnante, non prevista
dall’art. 39 ed ancor più perché trattasi di un tipo di sindacato spettante ad
un giudice non solo diverso ma appartenente a diversa giurisdizione. Quindi
il giudice tributario non può compiere un giudizio sommario e prognostico circa la validità o fondatezza della querela, né può valutare
l’idoneità dei mezzi di prova offerti dalla parte per privare di efficacia
probatoria il documento impugnato.
Per ciò che concerne, invece, alla rilevanza del documento
impugnato con querela di falso ai fini della decisione della controversia che
dovrebbe essere sospesa, la sentenza in esame chiarisce che, allorquando la querela non colpisca il
documento nella sua interezza, il giudizio di rilevanza deve essere effettuato specificamente e analiticamente per
ciascun passaggio di ogni atto denunciato di falso.
Deve, infatti, escludersi che possa condursi una valutazione sommaria oppure che questa
possa essere surrogata da quella concernente la natura dello specifico dato del
quale si denunci la falsità (per escludere che si tratti di circostanza
assistita di fede privilegiata e perciò denunciabile con querela di falso),
essendo peraltro da rilevare che tale diversa valutazione potrebbe comportare
una complessa attività interpretativa sia degli atti impugnati che della stessa
querela, non prevista dall’art. 39 d.lgs. 546/92, ed in ogni caso spettante solo al giudice competente a
decidere sulla querela medesima.
9) Gli atti oggetto di
querela di falso.
Essendo, quello tributario, un processo di tipo documentale, è essenziale
un elevato grado di attenzione della lite, in tema di istruzione probatoria, da
parte del Giudice. Peraltro, a differenza del rito civile, l'inammissibilità
della prova testimoniale, rende la querela di falso uno dei pochi strumenti
processuali che possano, sussistendone i presupposti di cui si è riferito, contrastare
la valenza delle prove documentali fornite dalle parti, in quanto costituisce il solo strumento per
contestare le risultanze estrinseche dell'atto
pubblico o della scrittura
privata riconosciuta, autenticata o verificata, è disciplinata dagli artt.
221-227 del codice di procedura civile, e si concretizza in una istanza diretta
ad accertare - mediante un giudizio civile
- l'accertamento della falsità materiale o ideologica di un documento.
Per la
Corte di Cassazione, si ha falsità materiale ogni qualvolta
sussista una divergenza fra autore apparente ed autore reale del documento o
quando il documento sia stato alterato dopo la sua formazione, mentre si ha falsità
ideologica quando nell'atto sono contenute attestazioni o
dichiarazioni non veritiere.
Vediamo
quali sono i documenti che, più frequentemente, possono essere oggetto di
querela di falso.
L’atto per eccellenza, tra quelli che qui interessano, è
certamente l'atto pubblico, cioè quello che per sua natura è collegabile alla possibilità di
proposizione della querela di falso. L’art. 2699 del codice civile fornisce la
definizione di atto pubblico, qualificandolo come "il documento redatto, con le richieste formalità, da un notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato ad
attribuirgli pubblica fede nel luogo dove l'atto è formato", mentre il
successivo art. 2700 (efficacia dell'atto pubblico) statuisce che esso "fa piena prova, fino a querela di falso,
della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha formato,
nonché delle dichiarazioni delle
parti e degli altri fatti che
il pubblico ufficiale attesta avvenuti in sua presenza o da lui compiuti".
E’ immediatamente evidente il nesso tra le due norme, da cui deriva, ai fini
del contrasto della prova offerta dall'atto pubblico, la immediata
previsione della proposizione della querela di falso, mentre per la scrittura privata è necessario un altro
passaggio, costituendo proprio il mancato disconoscimento, alla prima udienza
utile, della scrittura privata da parte del soggetto contro il quale tale
documento è prodotto, il fatto che determina il riconoscimento della stessa ad
ogni effetto di legge; e quindi, in via esemplificativa, deve riconoscersi il
rango della scrittura privata, munita della efficacia conferitale dall'art.
2702 del codice civile, anche alla copia fotostatica o fotografica della scrittura non disconosciuta,
non solo in ordine alle dichiarazioni ivi contenute ed alla loro
provenienza, ma anche in relazione all'autenticità dell'eventuale
sottoscrizione appostavi, con consequenziale necessità della querela di falso
per determinare il venir meno della efficacia probatoria che in tal modo le
viene attribuita dalla legge.
Il processo verbale di constatazione è il documento preordinato alla descrizione
di atti o fatti, rilevanti per il diritto, compiuti alla presenza di un
soggetto verbalizzante, all’uopo incaricato di tale compito, e la sua funzione
essenziale è quella di “fotografare” fedelmente gli atti e/o i fatti, avvenuti
alla presenza del verbalizzanti e, quindi, in questo
contesto, il processo verbale di constatazione assume carattere di atto
pubblico (Cass. 10.2.2006 n. 2949), con il valore probatorio attribuibile allo
stesso, con la conseguenza che tale aspetto comporta che i fatti descritti e
resi noti al contribuente, attraverso lo stesso “pvc”, si considerano provati
fino a querela di falso, ma solo relativamente alla parte del pvc, in cui il
pubblico ufficiale descrive operazioni materiali accadute in sua presenza o da
lui compiute, non essendo riconosciuto alcun speciale valore probatorio, dalla
giurisprudenza di merito e di legittimità, alla parte del verbale che può
contenere deduzioni ulteriori ed argomentazioni presuntive degli stessi verificatori.
(Cassazione
n. 7671 del 16.05.2012).
P.v.c. - Valutazioni dei verbalizzanti
Le
valutazioni dei verbalizzanti non sono coperte da alcuna efficacia probatoria privilegiata,
sicché gli uffici sono tenuti ad operare una valutazione critica dei dati e degli
elementi informativi loro forniti dagli organi competenti a svolgere le
indagini, potendo disattendere le relative valutazioni.
In
conclusione, si può riassumere nella seguente tabella la disciplina
dell’efficacia probatoria del “PVC”:
Dichiarazione contenuta nel “PVC” Efficacia probatoria
Attestazione degli atti compiuti dai verbalizzanti
Efficacia
privilegiata ai sensi dell’art. 2700 c.c.
(piena
prova fino a querela di falso)
Attestazione dei fatti materiali constatati
direttamente dai verificatori
Efficacia
privilegiata ai sensi dell’art. 2700 c.c.
(piena
prova fino a querela di falso)
Valutazioni critiche dei
verbalizzanti Non
costituiscono prova privilegiata
II documento informatico (si pensi al “visto
di formazione e di esecutorietà del ruolo”), quando sottoscritto con firma
elettronica qualificata o digitale oppure anche con firma elettronica avanzata,
acquista di per sé un'efficacia
probatoria pari a quella della scrittura privata ai sensi dell'art. 2702
del codice civile, e dunque costituisce piena prova sino a querela di falso
della provenienza delle dichiarazioni di chi l’ha “sottoscritto”.
Proprio
con riferimento al “ruolo”,
attenzione particolare va rivolta alla sentenza n. 16665, depositata il 29
luglio 2011, dalla Suprema Corte di Cassazione che, chiamata a decidere sulla
contestata data di formazione indicata sul ruolo, ha stabilito che il ruolo, in quanto atto formato da un Pubblico ufficiale, va concepito come
atto pubblico presidiato, ai sensi dell'art. 2700 del codice civile, dalla
fede pubblica in merito alla provenienza come alla data di formazione, e dunque – di conseguenza - la veridicità di tali elementi può muoversi
solo attraverso l'espletamento della querela di falso in quanto atto formato da
un Pubblico ufficiale autorizzato a manifestare all'esterno la volontà della
Pubblica amministrazione.
La stessa
sentenza cristallizza quindi gli spazi entro i quali il ruolo può esprimere il
valore di prova legale tipico dell'atto pubblico, e l’efficacia di questo
tipo di prova, quindi, si espande a tutto il c.d. contenuto estrinseco dell'atto ovvero alla provenienza ed alla
data di formazione senza influire anche sul suo c.d. contenuto intrinseco,
ossia alla verità ed esattezza sostanziale di quanto riportato nell'atto.
Altro atto
“tipico” è l’avviso di ricevimento delle
raccomandate postali, al cui riguardo la giurisprudenza indica che l'avviso
di ricevimento delle raccomandate postali
ha natura di atto pubblico e che la
conseguente forza certificatoria privilegiata di cui all'art. 2700 del codice
civile è contestabile soltanto a mezzo dell'apposita impugnazione di querela
di falso.
L’avviso di ricevimento è il documento
certificativo dell'avvenuta consegna dell'atto (e, quindi prova del perfezionamento
della notifica), le cui risultanze sono assistite dalla fede privilegiata di cui all'art. 2700 del codice civile in ordine
alle dichiarazioni delle parti e agli altri fatti che l'agente postale,
mediante la sottoscrizione apposta in calce all'avviso stesso, attesta
avvenuti in sua presenza.
Per cui,
ove il destinatario dell'atto intenda contestare l'avvenuta esecuzione della
notificazione, affermando ad esempio di non aver ricevuto alcun piego oppure di
non aver mai apposto la propria firma sull'avviso, deve attivare l'apposito
procedimento di querela di falso, e ciò anche nell'ipotesi in cui l'eventuale
immutazione della realtà fattuale non sia ascrivibile a dolo da parte
dell’agente postale, ma soltanto ad una sua imperizia, leggerezza, o
negligenza.
Solo con querela di falso una cartella notificata al
contribuente, ma che riporta una firma falsa mai apposta da quest’ultimo, può
essere considerata annullabile in quanto mai formalmente notificata. Il
riferimento dei giudici emiliani è alla sentenza di Cassazione n. 24852/2006 in
cui veniva stabilito come l’avviso di ricevimento della raccomandata riveste
natura di atto pubblico e, di conseguenza, il destinatario che ritenesse la
propria firma falsa, ha l’onere di impugnarlo a mezzo di “querela di falso”.
(CTP REGGIO EMILIA N. 169/01/10 DEL 28 SETTEMBRE
2010)
Processo tributario:
notifica a mezzo posta e cartolina di avviso di ricevimento
Con la sentenza in oggetto la Corte di Cassazione affronta
nuovamente l'argomento della notifica degli atti giudiziari a mezzo posta e,
nello specifico, l'importanza della cartolina di avviso di ricevimento per il
perfezionamento della notifica (con riferimento alle norme contenute nel codice
di procedura civile).
Infatti le disposizioni disciplinanti il processo tributario
sono completate, nei punti in cui si possono riscontrare delle lacune oppure
per rinvio delle stesse norme, a quanto contenuto nel codice di procedura
civile; allo stesso modo la giurisprudenza, riguardante quest'ultimo codice,
interessa anche le disposizioni tributarie.
(Cassazione civile, sez. tributaria, sentenza 08.05.2006 n°
10506)
Di conseguenza la sentenza della Corte Costituzionale n.477 del 2002
non ha limitato i suoi effetti alle notifiche nel processo civile, ma ha
modificato anche quelle riguardanti i ricorsi presso le Commissioni Tributarie;
da quella data in poi tutti i giudici hanno applicato i dettami della Corte
Costituzionale (fino all'ultima novella del codice di procedura civile).
A ciò si deve aggiungere la natura della cartolina di avviso
di ricevimento che, al momento della firma da parte di chi riceve l'atto,
assume un valore parificabile a quello di un atto pubblico in quanto il
postino, sottoscrivendo il documento dopo il ritiro, autentica la firma del
ricevente.
Tale funzione certificativa comporta che per sostenere la
mancata ricezione del documento o si dimostra che il firmatario non era
abilitato al ritiro, oppure si procede con una denuncia di querela di falso
(come con tutti gli atti pubblici).
Inoltre la stessa qualità fornisce all'Ufficio Giudicante la
certezza della notifica, soprattutto per la data di ricezione.
Quindi, come afferma la sentenza in oggetto, oltre ad altre
decisioni sia di merito che di legittimità (vedi per tutte Cassazione 11257 del
2003, 4900 del 2004, 2722 del 2005), la
mancata produzione dell'avviso di ricevimento produce l'inesistenza della
notifica, con la contestuale impossibilità di una rinnovazione della medesima,
l'inammissibilità del ricorso e l' inesistenza di qualunque decisione presa in
un giudizio così instaurato.
Diversamente succederebbe se la cartolina fosse allegata
all'atto, ma non venisse apposta sull'originale, o sulla copia del
destinatario, la relata di notifica: tale mancanza non comporterebbe
l'inesistenza della notifica ma una mera irregolarità non inficiante
l'eventuale decisione.
In conclusione, la Corte continua a distinguere nettamente
tra il momento della consegna dell'atto agli Ufficiali Giudiziari, importante
per i termini di impugnazione di un provvedimento, ed il momento della
notifica, indicato nella certezza che controparte abbia ricevuto il documento
che mantiene sempre la sua funzione di atto recettizio (con delle suddivisioni
ancora più specifiche, se la giurisprudenza distingue anche tra casi di
apposizione della relata di notifica o allegazione dell'avviso di ricevimento).
Tale separazione è importante per i contribuenti, in quanto i
termini per l'impugnazione dei provvedimenti possono spirare lo stesso giorno
in cui il ricorso viene consegnato per la notifica, senza produrre decadenze
l'avvenuta ricezione dell'atto fuori termine, che può essere causata da fatti
imprevisti.
Anche la relata di notificazione di un atto fa fede fino a querela di falso per le
attestazioni che riguardano l'attività svolta dall'ufficiale giudiziario
procedente, la constatazione di fatti avvenuti in sua presenza ed il
ricevimento delle dichiarazioni resegli, limitatamente al loro contenuto
estrinseco, mentre non sono assistite da pubblica fede tutte le altre
attestazioni in essa contenute, (come la dichiarazione del consegnatario di essere addetto alla
casa, di essere dipendente o convivente col destinatario) che non sono frutto
della diretta percezione del pubblico ufficiale, bensì di informazioni da lui
assunte o di indicazioni fornitegli da altri.
Ma anche
tali attestazioni sono assistite da una presunzione di veridicità che può
essere superata solo con la prova
contraria, che le parti debbono dare rispetto alla diversa qualifica
della persona che ha accettato l’atto, rispetto a quanto risulta dalla relata
della notifica.
Le scritture private provenienti da terzi
sono oggetto del contenuto della sent.
n. 15169 del 23 giugno 2010 espresso dalle Sezioni Unite della Corte di
Cassazione[1], le quali hanno affermato
che possono essere liberamente
contestate, non applicandosi alle stesse la disciplina sostanziale di
cui all'art. 2702 del codice civile né quella processuale di cui all'art. 214
del codice di procedura civile, atteso che le stesse costituiscono “prove atipiche”
il cui valore probatorio è puramente indiziario e che possono quindi
contribuire a fondare il convincimento del giudice in armonia con altri dati
probatori acquisiti al processo, mentre va affermata la necessità della
tempestiva contestazione e della proposizione della querela di falso per le
scritture provenienti da terzi dotate di una carica di incidenza sostanziale e
processuale intrinsicamente elevata. Secondo le SS.UU., la materia deve essere
disciplinata da due principi, ove uno ha portata generale, mentre l'altro è di
applicazione speciale. Peraltro, il principio di diritto enunciato dalla
predetta sentenza appare composto da due concorrenti affermazioni; quella
secondo cui "le scritture private provenienti da terzi possono essere
liberamente contestate, non applicandosi alle stesse la disciplina sostanziale
di cui all'art. 2702 del codice civile né quella processuale di cui all'art.
214 del codice di procedura civile, visto che le stesse costituiscono prove
atipiche il cui valore probatorio è puramente indiziario e che possono quindi
contribuire a fondare il convincimento del giudice in armonia con altri dati
probatori acquisiti al processo"; l’altra, secondo la quale "nell'ambito
delle scritture private deve riservarsi diverso trattamento a quelle la cui natura le connota di una carica di incidenza sostanziale e processuale intrinsecamente
elevata, tale da richiedere la querela di falso onde contestarne la autenticità".
In conclusione, per le SS.UU. le scritture private provenienti da terzi non
devono essere impugnate con querela di falso, salvo che ci sia un legame
specifico tra chi ha sottoscritto l'atto (ad esempio moglie dell'attore) e le
parti in causa.
Non
tutta la relata di notifica è «coperta» dalla pubblica fede
La relata di notifica appartiene al
genus degli atti pubblici, quindi le affermazioni del pubblico ufficiale
relative al loro contenuto estrinseco, i fatti che egli afferma di aver
compiuto e quelli che afferma essere avvenuti sono contestabili solo con
querela di falso, ai sensi dell’art. 2700 c.c.
Tutte le valutazioni del pubblico
ufficiale, così come il contenuto intrinseco delle dichiarazioni di soggetti
terzi (ovvero le questioni che presuppongono valutazioni, locuzione che va
intesa in senso lato) si presumono, invece, veri sino a prova contraria.
Il caso può presentarsi quando il
messo afferma di non aver rinvenuto la sede sociale della società.
Se da dati inconfutabili (visure
camerali, fotografie, altri atti notificati da diverse amministrazioni
pubbliche) emerge che la sede è presente (magari un tantino nascosta),
apparirebbe assurdo sostenere la necessità della querela di falso. Occorre
privilegiare il buon senso Nonostante l’affermazione contraria sembra essere
fatta propria da un certo filone giurisprudenziale (si veda la sentenza 17064
del 2006), si potrebbe ritenere che ciò rientri nell’errore materiale, in
quanto tale non contestabile per forza di cose con querela di falso. Oltre a
ciò, come sembra ammesso da altre pronunce giurisprudenziali (Cass. 20426 del
2007), si può presumere che l’affermazione di mancato rinvenimento della sede
sociale sia frutto di errate informazioni reperite nei pressi del luogo
indicato nell’atto notificando. Se così è, il contribuente ben può contestare
il contenuto intrinseco delle dichiarazioni in sede fiscale.
In altri termini, nella relata di
notifica difficilmente sono presenti anche sintetiche affermazioni
sull’attività compiuta dal messo notificatore, egli si limita a compilare la
relata affermando di non aver rinvenuto nessuna sede sociale. Allora, è più che
lecito presumere che egli, implicitamente, abbia fatto affidamento o su una sua
valutazione personale (dovuta probabilmente a negligenza, consistente nel non
aver effettuato le opportune ricerche) o su errate indicazioni della gente
interpellata nei pressi del luogo di notifica.
Del resto, se la presenza della sede
legale della società viene dimostrata in maniera certa e precisa, è palese che
l’adozione della metodologia di notifica per gli irreperibili “assoluti” debba
comportare la nullità della stessa senza alcuna necessità di querela di falso.
10) Sull’obbligo
di sospensione del giudizio
L’art. 39 del DLgs. 546/92 prevede che il processo tributario deve essere sospeso quando “è presentata querela di falso o deve essere decisa
in via pregiudiziale una questione sullo stato o la capacità delle persone,
salvo che si tratti della capacità di stare in giudizio”, e la sospensione dura
sino al passaggio in giudicato
della sentenza sulla predetta querela.
Può essere l’ipotesi in cui il contribuente ritiene che, in
merito alla notificazione dell’atto, la relata di notifica o l’avviso di
ricevimento siano stati falsificati dall’agente notificatore o da altro soggetto, essendo indifferente che
si tratti di falsità materiale o ideologica.
Nella menzionata fattispecie, trattasi di atti pubblici, la cui veridicità, in merito ai fatti attestati dal pubblico ufficiale (si pensi all’apposizione della data) sono assistiti da pubblica fede, per cui “intaccabili” solo con querela di falso dinanzi al giudice civile (ove, peraltro, è ammessa senza problemi la prova testimoniale).
Nella menzionata fattispecie, trattasi di atti pubblici, la cui veridicità, in merito ai fatti attestati dal pubblico ufficiale (si pensi all’apposizione della data) sono assistiti da pubblica fede, per cui “intaccabili” solo con querela di falso dinanzi al giudice civile (ove, peraltro, è ammessa senza problemi la prova testimoniale).
In primo luogo, rammentiamo che il giudice tributario non ha, sempre e comunque, l’obbligo
di sospendere il processo quando è stata presentata, in sede civile, la querela
di falso, in quanto deve verificare la rilevanza del documento (oggetto di
querela) ai fini della decisione (Cass. nn. 4003 del 2009 e 8046 del 2013).
Potrebbe succedere che la querela di falso sia stata
presentata in merito alla relata
di notifica concernente l’atto “presupposto” (avviso di
accertamento) e che il contribuente, ottenuta la sospensione del processo
contro tale atto, intenda sollecitare la sospensione ai sensi dell’art. 39 del
DLgs. 546/92 anche nel processo contro l’atto consequenziale (ruolo, avviso di liquidazione, intimazione ad adempiere).
Della questione si è occupata la Commissione tributaria
regionale di Milano sezione di Brescia (sentenza n. 697 del 2015), ove i
giudici hanno fornito una risposta
negativa, in quanto “la querela
di falso non è afferente un atto
del presente procedimento, ma si riferisce alla notificazione degli avvisi di
rettifica oggetto di altro giudizio”.
Si dà rilievo, quindi, all’autonomia dei due atti (accertamento e cartella di pagamento, oppure, volendo riferirsi al caso oggetto della sentenza, accertamento e avviso di liquidazione), che, siccome distinti, godono di vita propria.
Si dà rilievo, quindi, all’autonomia dei due atti (accertamento e cartella di pagamento, oppure, volendo riferirsi al caso oggetto della sentenza, accertamento e avviso di liquidazione), che, siccome distinti, godono di vita propria.
La Corte di Cassazione, in effetti, ha diverse volte
affermato che il processo instaurato contro l’atto susseguente non può essere automaticamente sospeso per la
pendenza del ricorso contro l’atto presupposto
(Cass. nn. 17937 del 2004 e 28542 del 2011), stante l’autonomia dei due giudizi.
Detta tesi, sul lato strettamente tecnico, può ritenersi corretta, a livello di principio. Nel momento in cui si ricorre contro l’accertamento, l’atto di riscossione ha “vita propria” sino a quando l’accertamento non è annullato dal giudice.
Non a caso, la riscossione prosegue legittimamente nella misura in cui la legge lo consenta, e ciò, come sappiamo, dipende dal tipo di tributo in considerazione.
Ma questa conclusione davvero può essere accettata nell’ipotesi della querela di falso, sebbene, tecnicamente, potrebbe risultare corretta?
Entrano in gioco anche i tempi della giustizia civile, che
non sono biblici solo nel grado di legittimità come nel contenzioso tributario,
ma in tutti i gradi del giudizio.
Se il contribuente presenta querela di falso, il processo
contro l’accertamento deve, ex art. 39 del DLgs. 546/92, essere sospeso,
e magari sta sospeso per più di vent’anni, se le sentenze di merito vengono impugnate (tant’è che, con una
decisione poi chiaramente cassata dalla Suprema Corte, è successo che un
giudice tributario abbia dopo anni “riattivato”
il processo perché quello civile “non finiva più”, si veda la fattispecie
esaminata dalla sentenza della Cassazione n. 9389 del 2007).
Detto tanto, siamo davvero sicuri che il giudice investito
del ricorso contro l’avviso di liquidazione o la cartella di pagamento non
possa sospendere il processo?
Non sembrano sussistere profili di illegittimità nell’eventuale ordinanza di sospensione, sol perché accertamento e atto esattivo sono provvedimenti distinti.
Non sembrano sussistere profili di illegittimità nell’eventuale ordinanza di sospensione, sol perché accertamento e atto esattivo sono provvedimenti distinti.
Del resto, il processo sull’atto presupposto dipende dalla
decisione del giudice civile sulla querela di falso, la quale, a parte i
tecnicismi sull’autonomia dei due atti, per forza di cose finisce con il ripercuotersi sull’atto esattivo.
È indubbio che se il giudice civile dice che nella relata di notifica o nell’avviso di ricevimento postale è apposta una data o una firma falsa, e per questo l’accertamento viene dichiarato inesistente in quanto non notificato, viene meno anche l’atto susseguente.
Corte di Cassazione, sezione VI, ordinanza 3 luglio
2014, n. 15191.
Per contestare i fatti espressi nel p.v.c. della
G.d.F. il contribuente deve proporre querela di falso. In tema di accertamenti
tributari, il processo verbale di constatazione, redatto dalla Guardia di finanza
o dagli altri organi di controllo fiscale, è assistito da
fede privilegiata
Accertamento
fiscale - La notifica è valida anche se la firma è illeggibile
La notifica
di un accertamento fiscale immediatamente
esecutivo è considerata valida anche se la firma sulla ricevuta della
raccomandata a/r è illeggibile.
Ciò, fino
alla querela di falso.
Anche se l’avviso di ricevimento sulla raccomandata, con la
quale l’agente della riscossione
dimostra l’avvenuta consegna dell’avviso di accertamento,
riporta una firma illegittima, la notifica e' considerata legittima fino alla
querela di falso.
Questo, in sintesi, l’orientamento della Cassazione espresso
con sentenza 9337/14.
A parere degli Ermellini, infatti, è sufficiente la semplice
attestazione del postino, che è pubblico ufficiale, a dare piena prova al fatto
che la notifica sia avvenuta correttamente alla persona indicata
nell’accertamento fiscale.
Il contribuente, il
quale voglia contestare la legittimità dell’atto, non può farlo con una
semplice impugnazione dell’atto notificato, ma deve
presentare una querela di falso.
Pertanto, è legittima la consegna mezzo posta dell’avviso di accertamento
fiscale anche se è illeggibile la firma apposta sull’avviso di ricevimento
della notifica. La stessa si considera avvenuta correttamente fino alla querela
di falso da parte del contribuente.
Da ciò che si evince dalla pronuncia esaminata, quindi, è del
tutto inutile impugnare le notifiche provenienti dal fisco sostenendo che,
dalla ricevuta di ritorno della raccomandata con cui è stato notificato l’atto,
il cognome del ricevente non è facilmente decifrabile.
Nonostante la grafia del ricevente sia illeggibile, la
consegna deve ritenersi validamente effettuata a mani proprie del destinatario,
fino a querela di falso.
Accertamento: illegittima la notifica al falso suocero
È illegittima la notifica dell’avviso di accertamento fatta
presso la casa del contribuente ad una persona che si comporta come un
familiare ma che in realtà non lo è. Infatti, pur godendo la relata di “fede
privilegiata”, quest’ultima può essere superata a fronte della documentata
contestazione, da parte del notificatario, della qualità di chi ha ricevuto
l’atto. A fornire questo interessante principio è la sezione tributaria della
Corte di Cassazione, con la sentenza n. 26501, depositata il 17 dicembre 2014.
Non è valida la notifica dell’atto impositivo consegnato
dall’ufficiale giudiziario presso la residenza del contribuente ad un uomo che
si qualifica come “persona di famiglia” ma che in realtà è un estraneo, se il
contribuente dimostra documentalmente tali circostanze.
La pronuncia è rilevante poiché sembra discostarsi dalle
precedenti pronunce della Cassazione (cfr. sentenza
n. 184922013) che rimarcavano la fede privilegiata di cui gode la relata di notificazione, intesa
come atto del pubblico ufficiale il quale fa piena prova, fino a querela di
falso, delle dichiarazioni delle parti che l’ufficiale attesta essere avvenute
in sua presenza. Se dunque chi riceve la notifica si qualifica come soggetto
idoneo a riceverla, pur non essendolo, e firma la dichiarazione contenuta nella
relata, la notifica si considera perfezionata e perfettamente valida.
Con la sentenza in commento, la Suprema Corte sembra fare un
passo indietro e ribadire si la fede privilegiata della relata la quale, però,
può essere documentalmente superata dal contribuente.
L’avviso di ricevimento gode della
medesima forza certificatoria di cui è dotata la relazione di una notifica
eseguita dall’ufficiale giudiziario e può essere contestato solo con querela di
falso
Cassazione,
sez. tributaria – Ordinanza n. 9980 del 27 aprile 2010
Secondo la
giurisprudenza di legittimità, l’avviso di ricevimento, il quale è parte
integrante della relata di notifica, costituisce, ai sensi della legge n. 890
del 1982, art. 4, comma 3, il solo documento idoneo a provare sia l’intervenuta
consegna del plico con la relativa data, sia l’identità della persona alla
quale la consegna stessa è stata eseguita e che ha sottoscritto l’avviso; esso
riveste natura di atto pubblico e, riguardando un’attività legittimamente
delegata dall’ufficiale giudiziario all’agente postale ai sensi della citata
legge n. 890 del 1982, art. 1, gode della medesima forza certificatoria di cui
è dotata la relazione di una notificazione eseguita direttamente dall’ufficiale
giudiziario, ovverosia della fede privilegiata attribuita dall’art. 2700 cod.
civ., in ordine alle dichiarazioni delle parti e agli altri fatti che l’agente
postale, mediante la sottoscrizione apposta sull’avviso di ricevimento, attesta
avvenuti in sua presenza; pertanto, il
destinatario che intenda contestare l’avvenuta esecuzione della notificazione,
affermando di non aver mai ricevuto l’atto ed in particolare di non aver mai
apposto la propria firma sull’avviso, ha l’onere di impugnarlo a mezzo della
querela di falso, anche se l’immutazione del vero non sia ascrivibile a
dolo, ma soltanto ad imperizia, leggerezza o negligenza dell’agente postale (v.
Cass. nn. 10506/2006, 24852/2006, oltre che SS.UU. n. 627/2008).
11) Il procedimento
Disciplinata dagli artt. 221 e segg. c.p.c., come è noto, configura il
procedimento, diretto ad accertare l’autenticità o la falsità della prova
documentale. Per giurisprudenza unanime, “la querela di falso, sia essa
proposta in via principale ovvero incidentale, ha il fine di privare un atto
pubblico (od una scrittura privata riconosciuta) della sua intrinseca idoneità
a “far fede”, a servire, cioè, come prova di atti o di rapporti, mirando così,
attraverso la relativa declaratoria, a conseguire il risultato di provocare la
completa rimozione del valore del documento, eliminandone, oltre all'efficacia
sua propria, qualsiasi ulteriore effetto attribuitogli, sotto altro aspetto,
dalla legge, e del tutto a prescindere dalla concreta individuazione
dell'autore della falsificazione. Ne consegue che la relativa sentenza,
eliminando ogni incertezza sulla veridicità o meno del documento, riveste
efficacia “erga omnes”, e non solo nei riguardi della controparte presente in
giudizio” (Cassaz. civ., sez. I, 20 giugno 2000, n. 8362[2]).
La querela può essere proposta in via principale, con una specifica domanda avente come unico
oggetto la dichiarazione della falsità del documento, ovvero in via incidentale, in corso di causa,
nella quale viene prodotto un documento considerato rilevante ai fini della
decisione, idoneo ad assumere efficacia di fede privilegiata (presupposto, questo,
necessario del procedimento di verificazione giudiziale a norma degli artt. 221 e segg. c.p.c.). In via principale, la querela si
propone con citazione al giudice
competente, ossia al Tribunale,
(che, in materia, ha competenza
funzionale ed inderogabile, in composizione collegiale, dal momento che
sia l’art. 225 c.p.c.,
(il quale dispone espressamente che “sulla querela di falso pronuncia sempre
il collegio”), sia l’art. 221, 3° comma (che prevede l’intervento
obbligatorio del pubblico ministero), confermano il principio della
collegialità.
Peraltro, anche quando viene proposta incidentalmente, la
querela di falso raffigura una azione a sé, posto che persegue un proprio
risultato particolare, consistente nell’accertamento della verità o della
falsità di un documento rilevante ai fini della decisione della causa
principale. E tale accertamento va pronunziato con sentenza che, una volta
passata in giudicato, fa stato a tutti gli effetti. Anche in tale eventualità,
la competenza a conoscere le cause concernenti la querela di falso è riservata
per materia al Tribunale in composizione collegiale. Di conseguenza, il
giudice, davanti al quale la querela fosse incidentalmente proposta, dovrà
rimettere la causa relativa alla sola querela di falso al Tribunale competente,
ai sensi dell’art. 34 c.p.c., disponendo nel contempo la sospensione del
processo principale (art. 295 c.p.c.), fino alla decisione della questione del
falso.
La regola vale sia quando la causa principale pende davanti
al Giudice di pace, ovvero al Tribunale monocratico, oppure davanti alla Corte
d’Appello. In questo ultimo caso, la Corte d’Appello, davanti alla quale sia
stata proposta querela di falso, è tenuta ex art. 355 c.p.c. a compiere
l’indagine preliminare volta ad accertare l’esistenza o meno dei presupposti,
che giustificano l’introduzione del giudizio di falso, ossia:
·
e
se il documento impugnato di falsità sia rilevante per la decisione della
causa.
A seguito dell’esito positivo di detta indagine, la Corte
deve sospendere il procedimento di appello, per consentire la riassunzione
della causa di falso davanti al Tribunale, in guisa che il relativo giudizio
possa svolgersi con la garanzia del doppio grado di giurisdizione.
La querela di falso può essere proposta anche in Cassazione.
Tuttavia, in tale circostanza, può essere rivolta solo contro atti e documenti
relativi al procedimento, ossia quando riguardi la nullità della sentenza
impugnata, l’ammissibilità del ricorso o del controricorso, l’autenticazione
delle firme sugli stessi atti e le notificazioni di essi e non quando concerna
documenti prodotti in fase di merito, posti a fondamento della sentenza
impugnata dal giudice, potendo l’eventuale falsità di essi, se definitivamente
accertata nella sede giudiziaria competente, essere fatta valere come motivo di
revocazione.
In via incidentale, la querela si propone o con citazione o mediante dichiarazione da unirsi a verbale di udienza,
personalmente dalla parte o dal difensore munito di procura speciale. In tale
circostanza, la procura deve contenere la specificazione del documento o dei
documenti che la parte intende impugnare. Nondimeno, se la procura è conferita
al difensore a margine o in calce all’atto di citazione per la proposizione
della querela in via principale, tale specificazione non è necessaria, atteso
che il collegamento con l’atto su cui è apposta elimina ogni incertezza
sull’oggetto di essa.
È legittimato a proporre querela di falso, chiunque abbia interesse a contrastare
l’efficacia probatoria di un documento munito di fede privilegiata in relazione
ad una pretesa che su di esso si fondi, non esclusa la stessa parte che l’abbia
prodotto in giudizio. Spetta poi, al giudice civile ordinario, cui, come
ricordato, è devoluta in via esclusiva la cognizione della falsità di un
documento (art. 9 e 221 c.p.c.), verificare la legittimazione e
l’interesse ad agire di chi propone la querela di falso, ponendosi detti
accertamenti quali necessari presupposti della pronuncia di merito.
Oltre a ciò, sempre in tema di presupposti, la querela di
falso non può essere proposta se non allo scopo di togliere ad un documento
(atto pubblico o scrittura privata), la idoneità a far fede e servire come
prova di determinati rapporti, sicché, ove tali finalità non debbano essere
perseguite, in quanto non sia impugnato un documento nella sua efficacia
probatoria, né debba conseguirsi l’eliminazione del documento medesimo o di una
parte di esso, né si debba tutelare la fede pubblica, bensì si controverta
soltanto su di un errore materiale incorso nel documento (configurabile nel
caso di mera “svista” che non incide sul contenuto sostanziale del documento,
rilevabile dal suo stesso contenuto e tale da non esigere una ulteriore
indagine di fatto), la querela di falso non è ammissibile.
La querela deve contenere, a pena di nullità, “l’indicazione
degli elementi e delle prove della falsità e deve essere proposta personalmente dalla parte o a mezzo di procuratore
speciale”. La sottoscrizione dell’atto ad opera della parte
personalmente o a mezzo di procuratore speciale costituisce un requisito
d’ammissibilità della querela di falso. Secondo la costante giurisprudenza “l’omissione
della sottoscrizione personale della parte o del procuratore speciale non può
essere sanata successivamente mediante la sottoscrizione personale dell’atto di
riassunzione dinanzi al tribunale” (Cassaz. Civ., sez. I, 8 marzo 2005, n.
5040[3]).
Peraltro, la procura speciale idonea a consentire al
procuratore la proposizione della querela di falso deve contenere la
specificazione del documento o dei documenti che la parte intende impugnare.
Tuttavia, la procura speciale, se conferita al difensore a margine o in calce
all’atto di citazione per la proposizione della stessa querela in via
principale, non necessita di specificazione del documento impugnato, perché il
collegamento con l’atto su cui è apposta elimina ogni incertezza sull’oggetto
di essa.
L’obbligo di
indicazione degli elementi e delle prove della falsità può essere
assolto con qualsiasi tipo di prova che sia idoneo all’accertamento del falso,
anche per mezzo di presunzioni, e non implica necessariamente la completa e
rituale formulazione della prova testimoniale, essendo sufficiente
l’indicazione di tale prova e delle circostanze che ne dovrebbero costituire
l’oggetto. La norma, per la costante giurisprudenza di legittimità non si pone
in contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., atteso che non pone alcun termine
perentorio pregiudizievole del diritto di difesa delle parti, limitandosi,
invero, a prescrivere quali siano i requisiti necessari per il perfezionamento
dell’atto processuale di impugnazione per falsità.
Va detto che solo dopo un travagliato percorso
interpretativo, oscillante tra posizioni particolarmente restrittive, si è
pervenuti a tale conclusione, secondo cui “l’indicazione degli elementi e
delle prove a supporto della querela di falso deve avvenire secondo i modi
stabiliti dalla legge processuale e, perciò, ove si tratti di prova
testimoniale, mediante indicazione specifica, ai sensi dell’art. 244 c.p.c., delle persone da interrogare e da
fatti, formulati in articoli separati, sui quali ciascuna di esse deve essere
interrogata, mentre l’esercizio del potere discrezionale del giudice di
consentire che detta indicazione avvenga, per quanto riguarda le persone,
successivamente non può essere invocato per supplire ad una lacunosa iniziativa
della parte che non abbia formulato alcuna richiesta di autorizzazione al
differimento dell’adempimento cui era tenuta”, e decisioni improntate a maggiore elasticità per le
quali “l’obbligo di indicazione degli elementi e delle prove della falsità
non impone necessariamente la completa e rituale formulazione della prova
testimoniale, essendo sufficiente l’indicazione di tale prova e delle
circostanze che ne dovrebbero costituire l’oggetto; peraltro, il suddetto
obbligo può essere assolto con l’indicazione di qualsiasi tipo di prova idoneo
all’accertamento del falso, e quindi anche a mezzo di presunzioni”.
Tuttavia, sebbene il dato normativo non sembri lasciare grande spazio ad
interpretazioni mitigatrici, in considerazione della precisa sanzione di
nullità che la disposizione contempla, l’affermazione per la quale la norma non
richiederebbe la completa formulazione delle prove, non va intesa come
possibilità per il querelante di fornire indicazioni probatorie generiche, ma,
semmai, nel giusto senso antiformalista. Ed infatti, l’attuale giurisprudenza,
non si limita a valorizzare dati puramente formali, ma ha posto l’accento sulle
modalità sostanziali di formulazione dell’atto, che consentivano nella specie
di far emergere con chiarezza i fatti oggetto della prova testimoniale ed
altrettante precise indicazioni sui soggetti chiamati a rendere la
testimonianza.
A seguito della querela di falso proposta in corso di causa,
il giudice deve interpellare, ai sensi dell’art. 222 c.p.c., il presentatore del documento,
chiedendogli se intenda valersene in giudizio, nel solo caso in cui questi sia
colui che voglia giovarsi dell’atto, in quanto la suddetta norma si riferisce
per l’interpello a chi esibisce il documento, avendo riguardo all’ipotesi
normale, che il presentatore dell’atto si identifichi con la persona che di
esso intenda giovarsi.
Il c.d. “interpello”
della parte non trova applicazione nel procedimento davanti al giudice di pace,
funzionalmente incompetente a conoscerne: in tale eventualità, si applica
l’art. 313 c.p.c., in forza del quale, il giudice se riconosce la rilevanza del
documento impugnato di falso e se il modo in cui l’impugnazione è proposta è
conforme ai detti requisiti di ammissibilità, è tenuto a sospendere il giudizio
ed a rimette le parti davanti al tribunale per il relativo procedimento.
Se la risposta è negativa, il documento viene espunto dal
procedimento e la querela non ha seguito. Sul punto, pare opportuno rilevare
come “la mancata comparizione o la mancata risposta della parte che ha
prodotto la scrittura all’interpello rivoltole dal giudice, ai sensi dell’art.
222 c.p.c., equivale a risposta negativa, atteso che, in aderenza alla lettera
e allo spirito della norma citata, è richiesta alla parte che ha prodotto il
documento impugnato di falso, per la gravità delle conseguenze che ne derivano,
una esplicita conferma della volontà di servirsene (già manifestata con la
produzione del documento stesso, ma non più sufficiente, di per sè sola, nella
nuova situazione processuale determinata dalla proposizione della querela, a
consentirne l’uso) e dunque un’esplicita risposta affermativa all'interpello,
alla quale non è dato sopperire con un comportamento decisamente equivoco, qual
è la renitenza o il silenzio”[4]. Alla risposta negativa,
secondo l’interpretazione giurisprudenziale, è anche equiparata l’ipotesi in
cui la parte medesima, dopo la presentazione della querela, dichiari
spontaneamente di rinunziare ad avvalersi del documento, al pari di altri
equivalenti contegni processuali, quali le ammissioni contenute negli scritti
difensivi. In caso affermativo, invece, il giudice autorizza la presentazione
della querela e dispone di conseguenza. Il documento in predicato viene
depositato nelle mani del cancelliere e si forma processo verbale di deposito
il cui contenuto è analiticamente descritto nell’art. 223 c.p.c..
Qualora il documento si trovi presso terzi, il giudice può ordinarne il
sequestro secondo le norme del codice di procedura penale. In questa
circostanza, tuttavia, secondo la giurisprudenza, atteso che la legge non
commina sanzioni di nullità per il mancato adempimento di tali incombenti,
essendo questi posti in funzione della attività ordinatoria da esplicarsi per
giungere alla soluzione della controversia, “sia il sequestro sia il
processo verbale di deposito del documento relativamente al quale sia stata
proposta querela di falso, sono rimessi alla discrezionalità del giudice che
deve adottarli, ove ne ravvisi la necessità, in relazione alla peculiarità del
caso concreto”[5].
La falsità del documento viene accertata sulla scorta dei mezzi
di prova dedotti dalle parti e ammessi dal giudice, sulla scorta della loro
rilevanza e idoneità, il quale ne disciplina anche i modi e i termini della
loro assunzione.
In conclusione della fase decisoria, possono configurarsi tre
possibili situazioni: a) il giudice istruttore sospende l’intero giudizio e
rimette le parti al Collegio per la decisione sulla querela; b) il giudice
rimette la causa al Collegio tanto per la decisione sulla querela quanto per il
merito; c) il giudice scinde il merito della causa, sospendendo parzialmente il
processo e disponendo la prosecuzione limitatamente alle domande che reputi
indipendenti dalla decisione sul falso.
L’impugnazione avverso tale sentenza va proposta autonomamente davanti alla Corte
d’Appello, posto che davanti alla Corte competente, secondo il principio
del doppio grado di giurisdizione, si impugnano le sentenze pronunziate dai
Tribunali e nel codice di rito non si riscontra una norma derogatoria per la
decisione sul falso. Peraltro “qualora la querela di falso sia proposta in
via incidentale innanzi al tribunale in grado d’appello e venga emanata
un’unica sentenza che decide sia sull’appello che sulla querela di falso, il
capo relativo a quest’ultima deve essere impugnato innanzi alla corte d’appello
competente in forza del principio del doppio grado di giurisdizione”.
Quindi, per la Corte di Cassazione, “la sentenza che decide sulla querela è
soggetta ai normali mezzi di impugnazione, e ciò quand’anche il procedimento di
merito nel cui ambito l’atto è stato prodotto sia un procedimento speciale,
ovvero abbia come epilogo una sentenza non soggetta ad appello”, in
considerazione del fatto che “la
sentenza che decide sulla querela di falso non è una sentenza parziale (cioè
non definitiva) ma rappresenta l’epilogo di un procedimento che – pur se, come
nella specie, attivato in via incidentale – è comunque autonomo che ha per
oggetto l’accertamento della falsità o meno di un atto avente fede privilegiata”.[6]
12) Autonomia
del procedimento per querela di falso
(Cassazione civile, sez. II, sentenza 28.05.2007 n°
12399)
Con la sentenza che si annota, la Cassazione opera un
significativo intervento nell’ambito del processo civile, ribadendo la piena ed
assoluta autonomia del procedimento per querela di falso.
In particolare, la Corte ha statuito che “la sentenza
che decide sulla querela di falso non è una sentenza parziale (cioè
non definitiva) ma rappresenta l’epilogo di un procedimento che – pur
se, come nella specie, attivato in via incidentale – è comunque autonomo che
ha per oggetto l’accertamento della falsità o meno di un atto avente fede
privilegiata”.
La querela di falso, disciplinata dagli artt. 221 e
segg. c.p.c., come è noto, configura il procedimento, diretto ad
accertare l’autenticità o la falsità della prova documentale.
Per giurisprudenza unanime, “la querela di falso, sia essa
proposta in via principale ovvero incidentale, ha il fine di privare un atto
pubblico (od una scrittura privata riconosciuta) della sua intrinseca idoneità
a “far fede”, a servire, cioè, come prova di atti o di rapporti, mirando così,
attraverso la relativa declaratoria, a conseguire il risultato di provocare la
completa rimozione del valore del documento, eliminandone, oltre all'efficacia
sua propria, qualsiasi ulteriore effetto attribuitogli, sotto altro aspetto,
dalla legge, e del tutto a prescindere dalla concreta individuazione
dell'autore della falsificazione. Ne consegue che la relativa sentenza,
eliminando ogni incertezza sulla veridicità o meno del documento, riveste
efficacia “erga omnes”, e non solo nei riguardi della controparte presente in
giudizio” (cfr. Cassazione civile, sez. I, 20 giugno 2000, n. 8362).
La querela può essere proposta in via principale, con
una specifica domanda avente come unico oggetto la dichiarazione della falsità
del documento, ovvero in via incidentale, in corso di causa, nella quale
viene prodotto un documento considerato rilevante ai fini della decisione1, idoneo ad assumere efficacia di
fede privilegiata (presupposto, questo, necessario del procedimento di
verificazione giudiziale a norma degli artt. 221 segg.
c.p.c. – cfr. Cassazione civile, sez. I, 29 settembre 2004, n.
19539, secondo la quale ciò comporterebbe l’inammissibilità della querela
avverso la “consulenza tecnica d’ufficio”, che si distingue nettamente dalla
prova documentale e che, riguardo alle affermazioni, constatazioni o giudizi in
essa contenuti, non fa pubblica fede - potendo essere contrastata con tutti i
mezzi di prova diversi dalla querela di falso - né vincola il giudice, che può
liberamente disattenderla).
In via principale, la querela si propone con citazione
al giudice competente, ossia al Tribunale,
(che, in materia, ha competenza
funzionale ed inderogabile - cfr. Cassazione civile, sez. III, 11
dicembre 1991, n. 13384), in
composizione collegiale, dal momento che sia l’art. 225
c.p.c., non modificato dalla Legge 26 novembre 1990, n. 353,
disponendo espressamente che “sulla querela di falso pronuncia sempre il collegio”,
sia l’art. 221, 3°
comma, prevedendo l’intervento obbligatorio del pubblico ministero
(per gli eventuali riflessi penalistici e per l’eventuale indiretta
disposizione di situazioni indisponibili) ex art. 70, 1° comma, n. 5),
c.p.c., confermano il principio della collegialità.
Nondimeno, anche quando viene proposta incidentalmente, la
querela di falso raffigura una azione a sé, posto che persegue un proprio
risultato particolare, consistente nell’accertamento della verità o della
falsità di un documento rilevante ai fini della decisione della causa
principale. Accertamento da pronunziarsi con sentenza che, una volta passata in
giudicato, fa stato a tutti gli effetti.
Anche in tale eventualità, la competenza a conoscere le cause
concernenti la querela di falso è riservata per materia al Tribunale in
composizione collegiale: per l’effetto, il giudice, davanti al quale la querela
fosse incidentalmente proposta, dovrà rimettere la causa relativa alla sola
querela di falso al Tribunale competente, ai sensi dell’art. 34 c.p.c.,
disponendo nel contempo la sospensione del processo principale (art. 295
c.p.c.), fino alla decisione della questione del falso.
La regola vale sia quando la causa principale pende davanti
al Giudice di pace, ovvero al Tribunale monocratico, oppure davanti alla Corte
d’Appello. In questo ultimo caso, la Corte d’Appello, davanti alla quale sia
stata proposta querela di falso, è tenuta ex art. 355 c.p.c. a compiere
l’indagine preliminare volta ad accertare l’esistenza o meno dei presupposti,
che giustificano l’introduzione del giudizio di falso, ossia:
1.
se
la querela sia stata ritualmente proposta a norma dell’art. 221 c.p.c.;
2.
e
se il documento impugnato di falsità sia rilevante per la decisione della
causa.
A seguito dell’esito positivo di detta indagine, la Corte
deve sospendere il procedimento di appello, per consentire la riassunzione
della causa di falso davanti al Tribunale, in guisa che il relativo giudizio
possa svolgersi con la garanzia del doppio grado di giurisdizione.
Vale il caso di ricordare che la querela di falso può essere
proposta anche in Cassazione. Tuttavia, in tale circostanza, può essere rivolta
solo contro atti e documenti relativi al procedimento, ossia quando riguardi la
nullità della sentenza impugnata, l’ammissibilità del ricorso o del
controricorso, l’autenticazione delle firme sugli stessi atti e le
notificazioni di essi e non quando concerna documenti prodotti in fase di
merito, posti a fondamento della sentenza impugnata dal giudice, potendo
l’eventuale falsità di essi, se definitivamente accertata nella sede
giudiziaria competente, essere fatta valere come motivo di revocazione.
In via incidentale, la querela si propone o con citazione
o mediante dichiarazione da unirsi a verbale di udienza, personalmente
dalla parte o dal difensore munito di procura speciale. In tale circostanza, la
procura deve contenere la specificazione del documento o dei documenti che la
parte intende impugnare. Nondimeno, se la procura è conferita al difensore a
margine o in calce all’atto di citazione per la proposizione della querela in
via principale, tale specificazione non è necessaria, atteso che il collegamento
con l’atto su cui è apposta elimina ogni incertezza sull’oggetto di essa.
È legittimato a proporre querela di falso, chiunque abbia
interesse a contrastare l’efficacia probatoria di un documento munito di fede
privilegiata in relazione ad una pretesa che su di esso si fondi, non esclusa
la stessa parte che l’abbia prodotto in giudizio. Spetta poi, al giudice
civile ordinario, cui, come ricordato, è devoluta in via esclusiva la
cognizione della falsità di un documento (art. 9 e 221 c.p.c.), verificare la legittimazione e
l’interesse ad agire di chi propone la querela di falso, ponendosi detti
accertamenti quali necessari presupposti della pronuncia di merito.
Oltre a ciò, sempre in tema di presupposti, la querela di
falso non può essere proposta se non allo scopo di togliere ad un documento
(atto pubblico o scrittura privata), la idoneità a far fede e servire come
prova di determinati rapporti, sicché, ove siffatte finalità non debbano essere
perseguite, in quanto non sia impugnato un documento nella sua efficacia
probatoria, né debba conseguirsi l’eliminazione del documento medesimo o di una
parte di esso, né si debba tutelare la fede pubblica, bensì si controverta
soltanto su di un errore materiale incorso nel documento (configurabile nel
caso di mera “svista” che non incide sul contenuto sostanziale del documento,
rilevabile dal suo stesso contenuto e tale da non esigere una ulteriore
indagine di fatto), la querela di falso non è ammissibile.
A mente dell’art. 221
c.p.c., la querela deve contenere, a pena di nullità, “l’indicazione
degli elementi e delle prove della falsità e deve essere proposta personalmente
dalla parte o a mezzo di procuratore speciale”. La sottoscrizione dell’atto
ad opera della parte personalmente o a mezzo di procuratore speciale
costituisce un requisito d’ammissibilità della querela di falso. Secondo la
costante giurisprudenza “l’omissione della sottoscrizione personale della
parte o del procuratore speciale non può essere sanata successivamente mediante
la sottoscrizione personale dell’atto di riassunzione dinanzi al tribunale”
(cfr. Cassazione civile, sez. I, 8 marzo 2005, n. 5040).
Peraltro, la procura speciale idonea a consentire al
procuratore la proposizione della querela di falso deve contenere la
specificazione del documento o dei documenti che la parte intende impugnare.
Tuttavia, la procura speciale, se conferita al difensore a margine o in calce
all’atto di citazione per la proposizione della stessa querela in via
principale, non necessita di specificazione del documento impugnato, perché il
collegamento con l’atto su cui è apposta elimina ogni incertezza sull’oggetto
di essa.
Per quanto riguarda l’obbligo di indicazione degli
elementi e delle prove della falsità, invece, questo può essere assolto con
qualsiasi tipo di prova che sia idoneo all’accertamento del falso, anche per
mezzo di presunzioni, e non implica necessariamente la completa e rituale
formulazione della prova testimoniale, essendo sufficiente l’indicazione di
tale prova e delle circostanze che ne dovrebbero costituire l’oggetto. Tale
norma, per la costante giurisprudenza di legittimità non si pone in contrasto
con gli artt. 3 e 24 Cost., atteso che non pone alcun termine perentorio
pregiudizievole del diritto di difesa delle parti, limitandosi, invero, a
prescrivere quali siano i requisiti necessari per il perfezionamento dell’atto
processuale di impugnazione per falsità.
A tale conclusione, si è giunti dopo un travagliato percorso
interpretativo, oscillante tra posizioni particolarmente restrittive, secondo
cui “l’indicazione degli elementi e delle prove a supporto della querela di
falso deve avvenire secondo i modi stabiliti dalla legge processuale e, perciò,
ove si tratti di prova testimoniale, mediante indicazione specifica, ai sensi
dell’art. 244
c.p.c., delle persone da interrogare e da fatti, formulati in
articoli separati, sui quali ciascuna di esse deve essere interrogata, mentre
l’esercizio del potere discrezionale del giudice di consentire che detta
indicazione avvenga, per quanto riguarda le persone, successivamente non può
essere invocato per supplire ad una lacunosa iniziativa della parte che non
abbia formulato alcuna richiesta di autorizzazione a siffatto differimento
dell’adempimento cui era tenuta” (cfr. Cassazione civile, sez. I, 15 marzo
1991, n. 2790), e decisioni improntate a maggiore elasticità per le quali “l’obbligo
di indicazione degli elementi e delle prove della falsità non impone
necessariamente la completa e rituale formulazione della prova testimoniale,
essendo sufficiente l’indicazione di tale prova e delle circostanze che ne
dovrebbero costituire l’oggetto; peraltro, il suddetto obbligo può essere
assolto con l’indicazione di qualsiasi tipo di prova idoneo all’accertamento
del falso, e quindi anche a mezzo di presunzioni” (Cassazione civile, sez.
lav., 3 febbraio 2001, n. 1537).
Sebbene il dato normativo non sembri lasciare grande spazio
ad interpretazioni mitigatrici, in considerazione della precisa sanzione di
nullità che la disposizione contempla, tuttavia, l’affermazione per la quale la
norma non richiederebbe la completa formulazione delle prove, non va intesa
come possibilità per il querelante di fornire indicazioni probatorie generiche,
ma, semmai, nel giusto senso antiformalista. L’attuale giurisprudenza,
pertanto, non si limita a valorizzare dati puramente formali, ma ha posto
l’accento sulle modalità sostanziali di formulazione dell’atto, che
consentivano nella specie di far emergere con chiarezza i fatti oggetto della
prova testimoniale ed altrettante precise indicazioni sui soggetti chiamati a
rendere la testimonianza.
A seguito della querela di falso proposta in corso di causa,
il giudice deve interpellare, ai sensi dell’art. 222
c.p.c., il presentatore del documento, chiedendogli se intenda
valersene in giudizio, nel solo caso in cui questi sia colui che voglia
giovarsi dell’atto, in quanto la suddetta norma si riferisce per l’interpello a
chi esibisce il documento, avendo riguardo all’ipotesi normale, che il
presentatore dell’atto si identifichi con la persona che di esso intenda
giovarsi.
Il c.d. “interpello” della parte non trova
applicazione nel procedimento davanti al giudice di pace, funzionalmente
incompetente a conoscerne: in tale eventualità, si applica l’art. 313 c.p.c.,
in forza del quale, il giudice se riconosce la rilevanza del documento
impugnato di falso e se il modo in cui l’impugnazione è proposta è conforme ai
detti requisiti di ammissibilità, è tenuto a sospendere il giudizio ed a
rimette le parti davanti al tribunale per il relativo procedimento.
Se la risposta è negativa, il documento viene espunto dal
procedimento e la querela non ha seguito. Sul punto, pare opportuno rilevare
come “la mancata comparizione o la mancata risposta della parte che ha
prodotto la scrittura all’interpello rivoltole dal giudice, ai sensi dell’art.
222 c.p.c., equivale a risposta negativa, atteso che, in aderenza alla lettera
e allo spirito della norma citata, è richiesta alla parte che ha prodotto il
documento impugnato di falso, per la gravità delle conseguenze che ne derivano,
una esplicita conferma della volontà di servirsene (già manifestata con la
produzione del documento stesso, ma non più sufficiente, di per sè sola, nella
nuova situazione processuale determinata dalla proposizione della querela, a
consentirne l’uso) e dunque un’esplicita risposta affermativa all'interpello,
alla quale non è dato sopperire con un comportamento decisamente equivoco, qual
è la renitenza o il silenzio” (Cassazione civile, sez. III, 5 novembre
2002, n. 15493).
Non solo. Alla risposta negativa, secondo l’interpretazione
giurisprudenziale, è anche equiparata l’ipotesi in cui la parte medesima, dopo
la presentazione della querela, dichiari spontaneamente di rinunziare ad
avvalersi del documento, al pari di altri equivalenti contegni processuali,
quali le ammissioni contenute negli scritti difensivi.
In caso affermativo, invece, il giudice autorizza la
presentazione della querela e dispone di conseguenza. Il documento in predicato
viene depositato nelle mani del cancelliere e si forma processo verbale di
deposito il cui contenuto è analiticamente descritto nell’art. 223
c.p.c.. Qualora, il documento si trovi presso terzi, il giudice può
ordinarne il sequestro secondo le norme del codice di procedura penale. In
questa circostanza, tuttavia, secondo la giurisprudenza, atteso che la legge
non commina sanzioni di nullità per il mancato adempimento di tali incombenti,
essendo questi posti in funzione della attività ordinatoria da esplicarsi per
giungere alla soluzione della controversia, “sia il sequestro sia il
processo verbale di deposito del documento relativamente al quale sia stata
proposta querela di falso, sono rimessi alla discrezionalità del giudice che
deve adottarli, ove ne ravvisi la necessità, in relazione alla peculiarità del
caso concreto” (Cassazione civile, sez. II, 23 dicembre 2003, n. 19727).
La falsità del documento viene accertata sulla scorta dei
mezzi di prova dedotti dalle parti e ammessi dal giudice, sulla scorta della
loro rilevanza e idoneità, il quale ne disciplina anche i modi e i termini
della loro assunzione.
All’esito della fase decisoria, possono configurarsi tre
possibili situazioni: a) il giudice istruttore sospende l’intero giudizio e
rimette le parti al Collegio per la decisione sulla querela; b) il giudice
rimette la causa al Collegio tanto per la decisione sulla querela quanto per il
merito; c) il giudice scinde il merito della causa, sospendendo parzialmente il
processo e disponendo la prosecuzione limitatamente alle domande che reputi
indipendenti dalla decisione sul falso.
Avverso tale sentenza l’impugnazione va proposta
autonomamente davanti alla Corte d’Appello, posto che davanti alla Corte
d’Appello competente, secondo il principio del doppio grado di giurisdizione,
si impugnano le sentenze pronunziate dai Tribunali e nel codice di rito non si
riscontra una norma derogatoria per la decisione sul falso. Addirittura “qualora
la querela di falso sia proposta in via incidentale innanzi al tribunale in
grado d’appello e venga emanata un’unica sentenza che decide sia sull’appello
che sulla querela di falso, il capo relativo a quest’ultima deve essere
impugnato innanzi alla corte d’appello competente in forza del principio del
doppio grado di giurisdizione” (Cassazione civile, sez. II, 13 aprile 1999,
n. 3625).
Riprendendo il filo tracciato dalle predette pronunce e
allargandone la portata interpretativa, con la pronuncia in commento la
Cassazione conclude la propria analisi dell’istituto statuendo chiaramente che
“la sentenza che decide sulla querela è soggetta ai normali mezzi di
impugnazione, e ciò
quand’anche il procedimento di merito nel cui ambito l’atto è stato prodotto
sia un procedimento speciale, ovvero abbia come epilogo una sentenza non
soggetta ad appello”, in considerazione del fatto che “la sentenza che decide sulla querela di falso
non è una sentenza parziale (cioè non definitiva) ma rappresenta l’epilogo di
un procedimento che – pur se, come nella specie, attivato in via incidentale –
è comunque autonomo che ha per oggetto l’accertamento della falsità o meno di
un atto avente fede privilegiata”.
13) La sospensione del processo
Articolo 41 - Provvedimenti sulla sospensione e
sull'interruzione del processo.
1. La
sospensione è disposta e l'interruzione è dichiarata dal presidente della sezione con decreto o dalla
commissione con ordinanza.
2. Avverso il
decreto del presidente è ammesso reclamo a sensi dell'art. 28.
Prendendo le mosse dalla sospensione, va anzitutto chiarito
che essa consiste in un momentaneo arresto dello svolgimento del processo, che
determina una sorta di stato di quiescenza del medesimo durante il quale è
precluso il compimento di qualsiasi attività e, al contempo, è annullato ad ogni
effetto il decorso del tempo, dal momento in cui la sospensione è disposta dal
giudice a quello nel quale la medesima viene a cessare.
Articolo 42 - Effetti della sospensione e
dell'interruzione del processo.
1. Durante la sospensione e l'interruzione non possono
essere compiuti atti del processo.
2. I termini in corso sono interrotti e ricominciano a
decorrere dalla presentazione dell'istanza di cui all'articolo seguente.
L’art. 39 del decreto legislativo n. 546 individua le
circostanze che impongono al giudice tributario di disporre la sospensione:
trattasi, in specie, come detto, delle ipotesi nelle quali è presentata querela
di falso – alla quale è equiparato per estensione analogica, secondo un
consolidato orientamento giurisprudenziale, il disconoscimento della scrittura
privata – o deve essere decisa in via pregiudiziale una questione sullo stato o
sula capacità delle persone, esclusa peraltro la capacità di stare in giudizio.
Il legislatore delegato, quindi, si è uniformato alla
disciplina dettata per il contenzioso amministrativo (cfr. Art. 8, secondo
comma della l. 6 dicembre 1971, n. 1034 sul giudizio dinanzi ai tribunali
amministrativi regionali e art. 28, ultimo comma del R.D. 26 giugno 1924, n.
1054 sul giudizio dinanzi al Consiglio di stato). E in effetti, l’art. 39 sopra
citato, nel momento in cui esclude l’obbligo per la commissione di sospendere
il processo allorché si tratti di questioni, da un lato, diverse rispetto a
quelle da esso espressamente menzionate e, dall’altro, del pari pendenti
davanti ad un giudice diverso, qual è per l’appunto ed in specie il giudice
ordinario, reca in sé implicito l’ampliamento della sfera della giurisdizione
del giudice tributario, la quale viene ad essere estesa alla cognizione,
seppure in via meramente incidentale, di dette ultime questioni; ciò che è
quanto oggi dispone in termini espliciti l’art. 2 del decreto 546, a seguito
delle modifiche introdotte dalla legge n. 448 del 2001.
Tanto premesso e precisato, si deve far presente che
sull’interpretazione della norma in esame si è manifestato un contrasto netto
tra dottrina e giurisprudenza.
La prima, invero e salvo poche eccezioni, ritiene che con
essa (norma) il legislatore abbia inteso escludere l’operatività, nel processo
tributario, dell’art. 295 c.p.c., in forza del quale il giudice dispone che il
giudizio sia sospeso in ogni caso in cui egli stesso o altro giudice debba
risolvere una controversia dalla cui definizione dipenda la decisione della
causa (cosiddetta sospensione necessaria per pregiudizialità); mentre la
seconda, nelle sue massime istanze, ha espresso ripetutamente l’avviso che il
divieto di sospensione di cui all’art. 39 del decreto n. 546 concerne soltanto
i casi di pregiudizialità esterna, e quindi di controversie pendenti davanti a
giurisdizioni diverse; non, invece, quelli di pregiudizialità interna, ossia in
cui sia la causa pregiudiziale sia la causa dipendente pendono entrambe davanti
al giudice tributario.
Volendo prendere posizione sulla disputa, occorre rammentare
che il sistema delineato in sede di disciplina del processo civile tende a
salvaguardare al massimo il valore dell’armonia delle decisioni, evitando il
rischio di giudicati contraddittori. Tale finalità risulta perseguita dal
legislatore, in prima battuta, favorendo per quanto possibile il simultaneus
processus in ordine alle cause connesse, ivi comprese quelle fra le quali
sussiste un rapporto di pregiudizialità-dipendenza (artt. 34 e 40 c.p.c.);
quando, poi, la trattazione congiunta non è possibile, per la sussistenza di
“competenze forti” o perché le cause connesse pendono in gradi diversi del
giudizio, entra in azione l’art. 295 c.p.c., il quale, per garantire il
raggiungimento dell’obbiettivo suddetto, contempla la sospensione necessaria
del processo sulla causa dipendente fino al passaggio in giudicato della
sentenza emessa in ordine alla causa pregiudiziale. Alla luce di siffatto
quadro normativo, è dunque certamente condivisibile l’affermazione di
autorevole dottrina secondo cui nell’ordinamento processuale civile il giudice
della situazione dipendente ha il potere di conoscere incidentalmente della
situazione pregiudiziale, tranne allorquando quest’ultima è dedotta in giudizio
in via principale; onde, deve ritenersi che detto ordinamento non ammette una cognizione
incidenter tantum della situazione pregiudiziale formante oggetto di
separata controversia.
Questi rilievi possono essere di grande aiuto per risolvere
il nostro problema. Quali che siano state le intenzioni sottese alla
formulazione dell’art. 39 del decreto n. 546, tale disposizione non si presta a
essere intesa in modo certo e univoco nel senso della non applicabilità al
processo tributario dell’art. 295 c.p.c..
D’altra parte, l’art. 39 non resta privato di qualunque
portata ove si aderisca alla tesi giurisprudenziale, poiché, da un lato, esso è
servito a fondare fin dall’emanazione del decreto delegato il potere di
cognizione incidentale del giudice tributario in ordine alle questione
rientranti nella giurisdizione del giudice ordinario; e, dall’altro, ha
consentito l’esplicazione di tale potere pur quando tali ultime questioni
formino oggetto di controversia in via principale davanti al giudice loro
proprio. In più, e alla fine, l’interpretazione di cui sopra è l’unica in grado
di garantire in seno al nostro processo, almeno in una qualche misura,
l’armonia dei giudicati, che può anche essere considerato un bene non assoluto,
da perseguire a tutti i costi, ma che è sicuramente un bene meritevole di
tutela; ciò tanto più se si ha presente che in tale processo non operano i
meccanismi predisposti dai citati artt. 34 e 40 c.p.c., essendo per l’appunto
quella delle commissioni tributarie una competenza forte, come tale in nessun
caso derogabile.
14) Il
procedimento
Passando ora agli aspetti procedurali, occorre in primo luogo
segnalare che la sospensione è disposta dal presidente della sezione con
decreto o dalla commissione con ordinanza, a seconda del momento in cui
l’evento suscettibile di determinarla viene rilevato (in specie, sarà demandato
al presidente di pronunciarsi al riguardo – come si è visto – in sede di esame
preliminare del ricorso, ai sensi dell’art. 27, secondo comma del decreto n.
546). Peraltro, quando la sospensione sia disposta a seguito della
presentazione della querela di falso, sembra necessario applicare in via
analogica le norme che regolano i casi in cui la querela deve essere proposta
dinanzi ad un giudice diverso da quello presso il quale pende il giudizio a
quo, cosicché il giudice che dichiara la sospensione dovrà anche fissare un
termine entro il quale la querela sia proposta dinanzi al giudice civile.
Avverso il decreto del presidente è ammesso reclamo a norma
dell’art. 28 (vd. Supra), mentre l’ordinanza, in conformità
all’orientamento formatosi con riguardo all’analogo provvedimento assunto
nell’ambito del processo civile, deve reputarsi non suscettibile
d’impugnazione.
In secondo luogo, va ricordato che, ai sensi dell’art. 42 del
decreto n. 546, il quale riproduce sostanzialmente l’art. 298 c.p.c., durante
la sospensione non possono essere compiuti atti del procedimento, pena la loro
nullità; può tuttavia essere chiesta la misura cautelare consistente nella
sospensione dell’esecuzione dell’atto impugnato (su cui si tornerà nel
prosieguo), com’è dato desumere dall’art. 669 quater c.p.c. (applicabile
al processo tributario in virtù del rinvio operato dall’art. 1 del decreto
legislativo suddetto), con la sola peculiarità che, ove la sospensione sia
concessa, non potrà rendersi operante l’obbligo per la commissione di fissare
la trattazione della controversia non oltre il termine di novanta giorni dalla
pronuncia, che potrà cominciare a decorrere soltanto dopo che il giudizio ha
potuto riprendere il suo corso.
15) La
ripresa del processo sospeso
Una volta cessata la causa che ne ha comportato la
sospensione, il processo deve essere riassunto entro il termine perentorio di
sei mesi decorrenti dal momento in cui è venuta meno la causa anzidetta; pena,
altrimenti, la sua estinzione. Così prevede l’art. 43 del decreto delegato; ma,
volendo prestare ossequio a quanto statuito dalla Corte costituzionale con la
sentenza n. 34 del 1970, occorre addivenire a un’interpretazione adeguatrice
della norma in questione onde sottrarla altrimenti a inevitabili censure
d’illegittimità, ritenendo che il dies a quo del termine per la
riassunzione sia da individuare nel momento in cui le parti del processo
sospeso hanno acquisito legale conoscenza (mediante comunicazione o
notificazione) della cessazione della causa di sospensione.
Articolo 43 - Ripresa del processo sospeso o
interrotto.
1. Dopo che e'
cessata la causa che ne ha determinato la sospensione il processo continua se
entro sei mesi da tale data viene presentata da una delle parti istanza di
trattazione al presidente di sezione della commissione, che provvede a norma
dell'art. 30.
2. Se entro sei mesi da quando e' stata dichiarata
l'interruzione del processo la parte colpita dall'evento o i suoi successori o
qualsiasi altra parte presentano istanza di trattazione al presidente di sezione
della commissione, quest'ultimo provvede a norma del comma precedente.
3. La comunicazione di cui all'art. 31, oltre che alle
altre parti costituite nei luoghi indicati dall'art. 17, deve essere fatta alla
parte colpita dall'evento o ai suoi successori personalmente. Entro un anno
dalla morte di una delle parti la comunicazione puo' essere effettuata agli
eredi collettivamente o impersonalmente nel domicilio eletto o, in mancanza,
nella residenza dichiarata dal defunto risultante dagli atti del processo.
La parte colpita dall'evento o i suoi successori
possono costituirsi anche solo presentando documenti o memorie o partecipando
alla discussione assistiti, nei casi previsti, da difensore incaricato nelle
forme prescritte.
La riassunzione del
giudizio sospeso avviene per il tramite di un’istanza di trattazione
diretta al presidente della sezione davanti alla quale pende il ricorso, che
adotta i provvedimenti necessari per la ripresa del cammino del processo. A
tenore dell’art. 42, dalla presentazione di tale istanza ricominciano a
decorrere i termini in corso alla data dell’avvenuta sospensione, interrotti
per effetto della stessa; sennonché, anche questa disposizione suscita seri
dubbi d’illegittimità costituzionale, dal momento che la ripresa del decorso di
detti termini avviene anche nei confronti della parte che non ha provveduto
alla presentazione dell’istanza di trattazione e che, pertanto, può ignorarne
l’esistenza (per una diversa disciplina si veda l’art. 298 c.p.c., il quale
stabilisce che i termini interrotti ricominciano a decorrere dal giorno della
nuova udienza fissata nel provvedimento di sospensione o nel decreto all’uopo
emesso dal giudice).
Prima di concludere, si rendono opportuni ancora due rilievi.
Il primo è che la presenza di un norma come quella contenuta
nell’art. 39 induce ad escludere che possa ammettersi nel processo tributario
la sospensione su istanza delle parti o concordata.
Il
secondo è che, viceversa, ben si attagliano a tale processo le ipotesi di
cosiddetta sospensione impropria, le quali si differenziano da quella propria
per ciò che esse non presuppongono la presenza di due processi bensì di un
processo unico in corso, su cui s’innesta un altro processo concernente una
questione relativa alla domanda oggetto del primo, che resta sospeso in
pendenza del secondo. Ci riferiamo, in particolare e senza pretesa di
completezza: a) alla sospensione disposta con l’ordinanza con cui il giudice
solleva una questione di legittimità costituzionale rilevante ai fini della
decisione e trasmette gli atti del procedimento alla Corte Costituzionale; b) a
quella che può verificarsi allorché sia stato proposto regolamento preventivo
di giurisdizione ed il giudice non ritenga il ricorso manifestamente
inammissibile o la contestazione della giurisdizione manifestamente infondata;
c) a quella per pregiudizialità comunitaria; d) a quella che discende dalla
presentazione dell’istanza di ricusazione del giudice; e) a quella, infine, del
giudizio di cassazione quando contro la stessa sentenza sono proposti tanto il
relativo ricorso quanto la revocazione
16) Estinzione
del processo tributario per inattività delle parti
Articolo 45 - Estinzione del processo per inattivita'
delle parti.
1. Il processo si estingue nei casi in cui le parti
alle quali spetta di proseguire, riassumere o integrare il giudizio non vi
abbiano provveduto entro il termine perentorio stabilito dalla legge o dal
giudice che dalla legge sia autorizzato a fissarlo.
2. Le spese del processo estinto a norma del comma 1
restano a carico delle parti che le hanno anticipate.
3. L'estinzione del processo per inattivita' delle
parti e' rilevata anche d'ufficio solo nel grado di giudizio in cui si verifica
e rende inefficaci gli atti compiuti.
4. L'estinzione e' dichiarata dal presidente della
sezione con decreto o dalla commissione con sentenza. Avverso il decreto del
presidente e' ammesso reclamo alla commissione che provvede a norma dell'art.
28.
17) Estinzione
del giudizio per inattività delle parti davanti alla Commissione Tributaria
Provinciale
Il processo si estingue ogni volta che le parti che devono
proseguire, riassumere o integrare il giudizio non vi provvedono nel termine
perentorio fissato dalla legge o dal giudice.
In particolare, quando la parte non provvede ad integrare il
contraddittorio in presenza di litisconsorzio necessario
L’estinzione del giudizio a seguito di riassunzione con
rinvio determina la definitività dell'atto impugnato. Ciò in quanto
l'obbligazione tributaria vive di forza propria per effetto dell'atto impositivo
ed in esso trova titolo costitutivo, con la conseguenza che la stessa non viene
travolta dagli effetti dell'estinzione. È quanto precisato dalla sentenza 5605/2015 della Cassazione
.
E’ evidente che dall’inattività delle parti (ad esempio
dell’Ente impositore) possono derivare danni solo per il ricorrente. Da notare
quindi la sproporzione di una penale di siffatta portata derivante
dall’omissione di un adempimento che, qualora posto a carico del resistente
ente impositore, non avente interesse a porlo in essere, possa procurare un
danno (definitività dell’atto impugnato) ad esclusivo carico della controparte
ricorrente.
18) Estinzione
del giudizio davanti alla Commissione Tributaria Regionale
L’estinzione del processo tributario per inattività delle
parti, intervenuta in appello, in un giudizio già definito in primo grado con
una decisione di fondatezza dell’azione del contribuente, determina la cristallizzazione della situazione giuridica sostanziale
come definita dalla sentenza di merito oggetto di impugnazione, che passa in
giudicato.
Il caso deciso con sentenza Cassaz. n. 13808/2014 trae
origine dal contenzioso tra l’Agenzia delle Entrate e gli eredi di una
contribuente che si erano visti notificare dal Fisco una cartella esattoriale
per mancato pagamento di imposte, cartella emessa per mancata riassunzione del
giudizio d’appello dopo il decesso della madre, vittoriosa in primo grado. In
sede di merito, la CTR aveva dato ragione ai contribuenti, confermando quella
di primo grado che aveva annullato l’iscrizione a ruolo.
L'Agenzia delle Entrate propone ricorso per cassazione contro
la sentenza che aveva annullato la predetta cartella di pagamento, recante in
particolare iscrizione a ruolo dell' importo di un avviso di accertamento
relativo a maggiori IRPEF ed ILOR, dovute dalla de cuius, e divenuto,
secondo l'Ufficio erariale, definitivo, a seguito di estinzione, per mancata
riassunzione, del relativo giudizio di appello, interrottosi per decesso della
stessa contribuente; nella specie, l’iscrizione a ruolo era stata annullata,
ritenendo che la declaratoria di estinzione del giudizio, avente ad oggetto
l'impugnazione dell'avviso di accertamento, costituente l'atto-presupposto
della cartella esattoriale, intervenuta in appello, aveva determinato il
passaggio in giudicato della sentenza, favorevole alla contribuente.
In particolare, i giudici d'appello hanno sostenuto che, nel
giudizio tributario, opera l'art. 338 c.p.c., richiamato dall'art. 49, D.Lgs.
n. 546/1992, in forza del quale, in caso di estinzione, per inattività delle
parti, del procedimento di impugnazione, si determina l'automatico
passaggio in giudicato della sentenza impugnata, essendo travolti i soli
atti del giudizio di appello. I giudici hanno altresì precisato che detta
ipotesi non è sovrapponibile a quella disciplinata dall'art. 63, D.Lgs. n.
546/1992, riguardante l'estinzione dell'intero processo, in caso di
mancata riassunzione del giudizio di rinvio dalla Corte Suprema di Cassazione.
L’Agenzia delle Entrate, ricorrendo per cassazione, ha
sostenuto che, in caso di estinzione del processo per inattività delle parti,
ai sensi dell'art. 45 citato, si estingua l'intero giudizio, comprensivo quindi
anche delle sentenze dei precedenti gradi del giudizio, non contenendo detta
norma la previsione derogatoria (clausola di c.d. salvezza delle sentenze di
merito), presente invece, nel processo civile ordinario di cognizione, nella
disposizione dell'art. 310 c.p.c.
La Cassazione ha respinto il ricorso dell’Agenzia delle
Entrate.
In particolare, i giudici di Piazza Cavour, nell’affermare il
principio di cui in massima, dopo aver operato una significativa ricognizione
della normativa applicabile - e premesso che, con riguardo all'ipotesi, che qui
interessa, di estinzione, per inattività delle parti, del giudizio di appello,
instaurato avverso sentenza di primo grado che, in senso favorevole al
contribuente, abbia annullato l'avviso di accertamento, la questione di diritto
controversa, vale a dire degli effetti di detta pronuncia sull'atto
impositivo, si prospetta nuova, nella giurisprudenza di legittimità -, ha
osservato che l'art. 49, D.Lgs. n. 546/1992 ammette l'applicabilità alle
impugnazioni delle sentenze delle Commissioni tributarie delle disposizioni
generali in tema di impugnazioni contenute nel Codice di procedura civile, sia
pure in via residuale, stante la clausola c.d. di "compatibilità"
("fatto salvo quanto disposto nel presente decreto"). In particolare,
osservano gli Ermellini, l'operatività nel processo tributario dell'art. 338
c.p.c. (che, si rammenta, sancisce il principio generale secondo il quale l'estinzione
del giudizio di impugnazione determina il passaggio in giudicato della
sentenza impugnata) non trova ostacolo in una disposizione speciale,
dettata per l'estinzione del processo tributario, in fase di impugnazione, con
esso incompatibile. Una tale disposizione non è rinvenibile nel comma 3
dell'art. 45, in quanto soltanto con esso il legislatore si è preoccupato di
precisare che, anche nel processo tributario, l'estinzione - per inattività
delle parti - rende inefficaci gli atti compiuti fino al perfezionamento della
fattispecie estintiva, essendo l'estinzione tuttavia rilevabile, anche
d'ufficio, "solo nel grado di giudizio in cui si verifica". La
pronuncia di estinzione in appello investe pertanto soltanto gli atti del
procedimento di gravame; diversa è la disciplina dettata nell'ipotesi di
estinzione del giudizio di rinvio, nella quale l'intero processo viene meno.
Ne consegue che l'estinzione del processo tributario, per
inattività delle parti, intervenuta in appello, in un giudizio già definito in
primo grado con una decisione di fondatezza dell'azione del contribuente,
determina la cristallizzazione della situazione giuridica sostanziale,
come definita dalla sentenza di merito oggetto di impugnazione, che passa in
giudicato.
Di rilievo le conseguenze pratiche della sentenza.
Secondo l’interpretazione offerta dalla Suprema Corte di Cassazione, in tale
ipotesi, infatti (distinta da quella relativa al giudizio di rinvio a seguito
di cassazione della sentenza resa in appello), il fenomeno estintivo non può
mantenere in vita il provvedimento impositivo impugnato, ormai travolto e
sostituito dal titolo giudiziale che ne ha annullato gli effetti.
19) Gli effetti della mancata riassunzione della
controversia rinviata dalla Corte di Cassazione alla Commissione Tributaria
Regionale
Articolo 63 - Giudizio
di rinvio.
1. Quando la Corte di cassazione rinvia la causa alla
commissione tributaria provinciale o regionale la riassunzione deve essere
fatta nei confronti di tutte le parti personalmente entro il termine perentorio
di un anno dalla pubblicazione della sentenza nelle forme rispettivamente
previste per i giudizi di primo e di secondo grado in quanto applicabili.
2. Se la riassunzione non avviene entro il termine di
cui al comma precedente o si avvera successivamente ad essa una causa di
estinzione del giudizio di rinvio l'intero processo si estingue.
3. In sede di rinvio si osservano le norme stabilite
per il procedimento davanti alla commissione tributaria a cui il processo e'
stato rinviato. In ogni caso, a pena d'inammissibilita', deve essere prodotta
copia autentica della sentenza di cassazione.
4. Le parti conservano la stessa posizione processuale
che avevano nel procedimento in cui e' stata pronunciata la sentenza cassata e
non possono formulare richieste diverse da quelle prese in tale procedimento,
salvi gli adeguamenti imposti dalla sentenza di cassazione.
5. Subito dopo il deposito dell'atto di riassunzione,
la segreteria della commissione adita richiede alla cancelleria della Corte di
cassazione la trasmissione del fascicolo del processo.
La mancata riassunzione
di una controversia, dopo il deposito di una sentenza di Cassazione, fa
estinguere l’intero processo, con salvezza degli atti impositivi ex adverso impugnati; riprende efficacia l’originario
atto impositivo poiché la sentenza di primo grado è assorbita e sostituita
dalla sentenza d’appello mentre quest’ultima è stata annullata in Cassazione.
Tuttavia, non è del tutto corretto affermare che le sentenze
del giudizio di merito siano “tamquam non
esset”, giacché, per principio generale del diritto processuale, il travolgimento dell’attività processuale
svolta trova un limite invalicabile nell’autorità di cosa giudicata che è
acquistata da una pronuncia emessa nel corso del processo oppure nelle
prescrizioni o decadenze nel frattempo verificatesi.
Nell’ipotesi di mancata riassunzione:
- Resta applicabile il giudicato
interno formatosi nel processo; si
salvano eventuali statuizioni di merito contenute nelle precedenti sentenze
passate in giudicato. Le sentenze di primo o secondo grado sopravvivono
nella sola parte non toccata dalle successive impugnazioni ossia non si verifica la caducazione di quei capi autonomi delle
sentenze non contestati o espressamente accettati che, pertanto, sono divenuti
irretrattabili.
- Non opera l’effetto sospensivo dei termini di prescrizione,
il quale svolge il suo effetto solo in presenza di un giudizio e non anche se
detto giudizio si estingue (articolo 2945cc). In seguito all’estinzione del processo viene meno l’efficacia
sospensiva della prescrizione collegata alla pendenza del processo e, pertanto,
l’esercizio del diritto non sarà più possibile quando dopo l’instaurazione del
processo poi estinto sia maturata la prescrizione.
- L’estinzione del giudizio non comporta l’estinzione
dell’azione che può essere riproposta a condizione che nel frattempo non siano
maturati i termini prescrizionali o decadenziali per il suo esperimento.
Occorrerà, quindi, di volta in volta, per ogni singola
fattispecie, valutare l’opportunità e l’interesse alla riassunzione del
giudizio (si pensi alla mancanza dell'interesse dell’Ufficio a riassumere il
processo al fine di imputare al contribuente l’onere di ripresentare l’istanza
di rimborso e di riproporre l’azione di rimborso; si pensi all’interesse
dell’Ufficio alla riassunzione nell’ipotesi in cui il rimborso sia stato medio
tempore concesso in modo indebito), tenendo conto, per ogni singolo caso, sia
delle prescrizioni e decadenze eventualmente verificatesi, sia delle statuizioni
di merito passate in giudicato interno nel corso del processo poi estinto.
In particolare, l’estinzione
del processo rende inefficaci gli atti compiuti (art. 310, comma 2, c.p.c.) e,
primo fra tutti, il ricorso di parte, atto introduttivo della lite, al quale
non può essere attribuito alcun effetto, né sostanziale, né processuale,
eccezion fatta per quanto riguarda la prescrizione, per la quale resta fermo
l’effetto interruttivo riconosciuto alla domanda giudiziale, dalla cui data
comincia a decorrere il nuovo periodo di prescrizione, perdendosi, però, il
vantaggio della neutralizzazione del tempo trascorso durante la pendenza del
giudizio (art. 2943, comma 1, e art. 2945, comma 3, codice civile).
In buona sostanza, l’estinzione del processo travolge i cd.
effetti processuali che gli atti già compiuti hanno prodotto o sono destinati a
produrre.
Tra i cd. effetti sostanziali rimane fermo l’effetto
interruttivo della prescrizione ex articolo 2945, comma terzo, del c.c.
ricollegato alla notifica del ricorso introduttivo; il termine di prescrizione
del diritto deve essere computato partendo dal giorno della domanda
introduttiva del processo estinto. Peraltro, non interrompono la prescrizione
gli atti processuali successivi al ricorso. Per le azioni di rimborso potrà
verificarsi che alla declaratoria ex officio d'estinzione del processo sul
credito fatto valere dal contribuente si accompagni la riproposizione
dell’azione da parte del contribuente, poiché il termine di prescrizione del
diritto fatto valere è ancora in corso di maturazione.
Per quanto riguarda, invece, i diritti soggetti a decadenza,
ben più gravi sono le conseguenze dell’estinzione del processo, in quanto,
mancando l’effetto interruttivo (applicabile solo alla prescrizione), viene a
cadere l'effetto conservativo della domanda ex art. 2945 codice civile.
Orbene, va allora considerato che, riacquistando piena
validità l’atto impositivo, in quanto il ricorso a suo tempo prodotto ha perso
l’effetto di impedirne la definitività, la durata del processo, poi dichiarato
estinto, può provocare sia la prescrizione, che la decadenza (a seconda delle
varie fattispecie impositive) dell’azione di riscossione del tributo.
In particolare, per quanto attiene alla riscossione dei
tributi, secondo una precisa ricostruzione ermeneutica, deve ritenersi che,
resosi definitivo, per effetto dell’estinzione del processo, l’avviso
d'accertamento a suo tempo notificato, vada, comunque, rispettato il termine
decadenziale per l’iscrizione a ruolo, che, se decorso durante lo svolgimento
del processo, renderebbe tardivo il successivo recupero del tributo accertato;
sussiste, quindi, secondo tale orientamento, in questo caso, l’interesse
dell’ufficio al mantenimento del processo.
Peraltro, secondo diverso orientamento, la liquidazione o
recupero del tributo troverebbe titolo nella sentenza di cassazione del
processo estinto per mancata riassunzione e non nella definitività dell’atto
impositivo determinatasi per l’inefficacia del ricorso proposto dal
contribuente.
Si segnala che l'estinzione del processo tributario, per
inattività delle parti, intervenuta in appello, in un giudizio già definito in
primo grado con una decisione di fondatezza dell'azione del contribuente,
determina la cristallizzazione della situazione giuridica sostanziale come
definita dalla sentenza di merito oggetto di impugnazione, che passa in
giudicato, non potendo, in tale ipotesi, rimanere in vita il provvedimento
impositivo impugnato, ormai travolto dal titolo giudiziale che ne ha annullato
gli effetti (Cass., Sez. trib., Sent. 18 giugno 2014, n. 13808).
L'estinzione del giudizio a seguito di riassunzione con
rinvio determina la definitività dell'atto impugnato. Ciò in quanto
l'obbligazione tributaria vive di forza propria per effetto dell'atto
impositivo ed in esso trova titolo costitutivo, con la conseguenza che la
stessa non viene travolta dagli effetti dell'estinzione. È quanto precisato
dalla sentenza 5605/2015 della Cassazione.
La vicenda giudiziaria.
A seguito di mancata riassunzione innanzi alla Commissione
tributaria regionale, previo rinvio della Corte di cassazione, di un giudizio
concernente un avviso di accertamento, l'amministrazione finanziaria notificava
una cartella di pagamento al fine di recuperare l'imposta dovuta, nonché i
relativi interessi e sanzioni. Tale cartella veniva impugnata dal contribuente.
La Commissione tributaria provinciale accoglieva il ricorso
con sentenza che veniva confermata in sede di appello. In particolare, i
giudici di secondo grado rilevavano che la mancata riassunzione del primo
giudizio sull'avviso di accertamento non avrebbe estinto la sentenza di primo
grado, favorevole al contribuente, che sarebbe passata in giudicato.
Avverso tale pronuncia proponeva ricorso per cassazione l'agenzia delle Entrate al fine di far valere, in particolare, la violazione dell'articolo 393 del Codice di procedura civile. Resisteva con controricorso incidentale il contribuente.
Avverso tale pronuncia proponeva ricorso per cassazione l'agenzia delle Entrate al fine di far valere, in particolare, la violazione dell'articolo 393 del Codice di procedura civile. Resisteva con controricorso incidentale il contribuente.
La normativa di riferimento
Nell'ambito del processo tributario, l'articolo 63 del Dlgs 546/1992
contiene la disciplina del giudizio di rinvio, che si può instaurare a seguito
della pronuncia della Suprema Corte che abbia cassato la sentenza impugnata
rinviando la causa alla Commissione tributaria provinciale o regionale.
In particolare, in base all'articolo 63, comma 2, del Dlgs 546/1992
, se la riassunzione non avviene entro il termine di un anno dalla pubblicazione
della sentenza della Cassazione o si avvera successivamente ad essa una causa
di estinzione del giudizio di rinvio, «l'intero processo si estingue» (a tal
riguardo si veda la circolare 98/E/1996 ). Similmente l'articolo 393 del Codice di procedura civile
stabilisce che «se la riassunzione non avviene entro il termine di cui
all'articolo precedente (tre mesi, ndr) o si avvera successivamente ad
essa una causa di estinzione del giudizio di rinvio, l'intero processo si
estingue; ma la sentenza della Corte di cassazione conserva il suo effetto
vincolante anche nel nuovo processo che sia instaurato con la riproposizione
della domanda».
Affinché il processo tributario possa considerarsi estinto, non è necessaria alcuna dichiarazione giudiziale di estinzione per inattività delle parti. Qualora peraltro il giudizio venga riassunto da una parte oltre i termini di legge, l'estinzione può essere rilevata anche d'ufficio dal giudice.
L'estinzione del processo non estingue l'azione, che può essere riproposta, a condizione che nel frattempo non siano spirati i termini prescrizionali o decadenziali per il suo esperimento.
Affinché il processo tributario possa considerarsi estinto, non è necessaria alcuna dichiarazione giudiziale di estinzione per inattività delle parti. Qualora peraltro il giudizio venga riassunto da una parte oltre i termini di legge, l'estinzione può essere rilevata anche d'ufficio dal giudice.
L'estinzione del processo non estingue l'azione, che può essere riproposta, a condizione che nel frattempo non siano spirati i termini prescrizionali o decadenziali per il suo esperimento.
La sentenza 5605/2015 della Cassazione, nell'accogliere il
ricorso del Fisco, ha fornito alcuni chiarimenti in materia di effetti della
mancata riassunzione del giudizio a seguito di sentenza della Cassazione con
rinvio.
La Cassazione, infatti, ha precisato che «la pronuncia di estinzione del giudizio
comporta… il venir meno dell'intero processo e, in forza dei principi in
materia di impugnazione dell'atto tributario, la definitività dell'avviso di
accertamento e, quindi, l'integrale accoglimento delle ragioni erariali».
Del resto, l'opposizione all'imposizione fiscale costituisce
un'«azione di accertamento negativo della legittimità della pretesa fiscale»,
con la conseguenza che in caso di estinzione del giudizio l'obbligazione
tributaria non viene meno, vivendo «di forza propria per effetto dell'atto
impositivo stesso ed in esso trova titolo costitutivo». L'atto amministrativo,
infatti, «non è un atto processuale bensì l'oggetto dell'impugnazione» che,
conseguentemente, non viene travolto dall'effetto estintivo del processo.
In altri termini, secondo la Suprema corte, l'effetto estintivo del giudizio di rinvio determina la caducazione di tutte le sentenze emesse nel corso del processo, in quanto la sentenza della Commissione tributaria regionale, che ha sostituito la sentenza della Commissione tributaria provinciale, è stata annullata dalla sentenza di rinvio della Cassazione, con il solo limite delle parti delle sentenze non oggetto di impugnazione e quindi passate in giudicato (diverso è l'effetto in caso di estinzione del processo per inattività delle parti ex articolo 45 del Dlgs 546/1992 che, invece, determina il passaggio in giudicato della sentenza impugnata).
In altri termini, secondo la Suprema corte, l'effetto estintivo del giudizio di rinvio determina la caducazione di tutte le sentenze emesse nel corso del processo, in quanto la sentenza della Commissione tributaria regionale, che ha sostituito la sentenza della Commissione tributaria provinciale, è stata annullata dalla sentenza di rinvio della Cassazione, con il solo limite delle parti delle sentenze non oggetto di impugnazione e quindi passate in giudicato (diverso è l'effetto in caso di estinzione del processo per inattività delle parti ex articolo 45 del Dlgs 546/1992 che, invece, determina il passaggio in giudicato della sentenza impugnata).
Pertanto, in caso di mancata riassunzione del giudizio a
seguito di cassazione con rinvio o in caso di estinzione del giudizio di
rinvio, si verifica l'estinzione dell'intero giudizio e, per l'effetto, l'atto
tributario impugnato diviene definitivo e si consolida la pretesa tributaria.
Ne deriva che, a partire da tale data, sorge il diritto dell'Amministrazione
finanziaria di esigere il credito dovuto nei termini previsti dalla legge.
Pertanto, alla luce delle considerazioni che precedono, la
sentenza 5605/2015 ha annullato la sentenza impugnata e, per l'effetto,
rinviato, anche per quanto riguarda il pagamento delle spese di lite, ad una
diversa sezione della Commissione tributaria regionale.
Si tratta, a ben vedere, di un orientamento consolidato,
fatto proprio dalla Cassazione già in precedenti occasioni.
Tuttavia va considerato
che la riscossione deve avvenire sulla base di una cartella di pagamento da
emettere a titolo definitivo entro termini decadenziali, per cui generalmente
questa decadenza si è già verificata.
Effetti
sull’atto impositivo
La mancata riassunzione nei termini di legge determina
l’estinzione del processo, non anche la decadenza dell'avviso di accertamento.
È quanto emerge dalla sentenza n. 1615/01/14 della Commissione Tributaria
Regionale della Calabria.
La controversia ha riguardato un avviso di liquidazione e irrogazione sanzioni per imposta di registro, relativo alla rettifica del valore di un immobile oggetto di vendita-divisione.
I ricorrenti hanno fatto presente che un primo avviso di accertamento era stato annullato dalla CTP con sentenza confermata dalla CTR. Di poi il giudizio di Cassazione, che si era chiuso con il rinvio della causa al giudice di secondo grado; causa che però non era stata riassunta nel termine di legge, circostanza che – sempre a detta dei ricorrenti – aveva determinato non solo l’estinzione del processo, ma anche la decadenza dell'avviso di accertamento e la prescrizione del credito tributario.
La controversia ha riguardato un avviso di liquidazione e irrogazione sanzioni per imposta di registro, relativo alla rettifica del valore di un immobile oggetto di vendita-divisione.
I ricorrenti hanno fatto presente che un primo avviso di accertamento era stato annullato dalla CTP con sentenza confermata dalla CTR. Di poi il giudizio di Cassazione, che si era chiuso con il rinvio della causa al giudice di secondo grado; causa che però non era stata riassunta nel termine di legge, circostanza che – sempre a detta dei ricorrenti – aveva determinato non solo l’estinzione del processo, ma anche la decadenza dell'avviso di accertamento e la prescrizione del credito tributario.
Investita del ricorso contro il secondo avviso di liquidazione, la Commissione Provinciale di Crotone ha dato torto ai contribuenti circa la dedotta illegittimità dell'emissione di due avvisi, e ciò in base al principio secondo cui l’estinzione del processo travolge la sentenza, ma non l'atto amministrativo, che è l'oggetto dell'impugnazione. La CTP ha dato torto ai contribuenti anche con riguardo alla dedotta prescrizione del credito tributario.
Ebbene, il verdetto della Provinciale è stato riformato in
esito al giudizio d’appello, perché la CTR di Catanzaro ha rilevato la prescrizione
del credito tributario in questione.
I rilievi della CTR. Il giudice dell’appello ha richiamato la giurisprudenza della Cassazione secondo cui l'estinzione del giudizio tributario comporta la definitività dell'avviso di accertamento impugnato, giacché quest'ultimo non è un atto processuale, ma l'oggetto dell'impugnazione. La pretesa tributaria vive infatti di forza propria in virtù dell'atto impositivo in cui è stata formalizzata e l’estinzione del processo travolge la sentenza ma non l'atto amministrativo.
I rilievi della CTR. Il giudice dell’appello ha richiamato la giurisprudenza della Cassazione secondo cui l'estinzione del giudizio tributario comporta la definitività dell'avviso di accertamento impugnato, giacché quest'ultimo non è un atto processuale, ma l'oggetto dell'impugnazione. La pretesa tributaria vive infatti di forza propria in virtù dell'atto impositivo in cui è stata formalizzata e l’estinzione del processo travolge la sentenza ma non l'atto amministrativo.
Dunque, poiché l'opposizione avverso l'imposizione fiscale integra una azione di mero accertamento negativo della legittimità della pretesa tributaria, l'eventuale estinzione di tale processo di opposizione (ad esempio per mancata riassunzione davanti al giudice del rinvio) “non può implicare l'estinzione dell'obbligazione tributaria, la quale vive di forza propria per effetto dell'atto impositivo stesso, e in esso trova titolo costitutivo”. Tuttavia, osserva la CTR, “nella fattispecie in esame, si deve rilevare che al momento della nuova notificazione dell'avviso di accertamento era ormai decorso il termine decennale di prescrizione. Tale termine, infatti, venuta meno la sospensione derivante dalla pendenza del procedimento ai sensi dell'art. 2945 co. 3 C.C., ha ricominciato a decorrere dalla data dell'atto interruttivo, rappresentato dalla prima notificazione dell'avviso di accertamento (e, dunque, dal 24-1-1996)”.
In conclusione, la CTR della Calabria ha accolto l’appello
dei contribuenti con compensazione delle spese.
Riscossione di somme
pretese con avviso di accertamento a seguito di estinzione del giudizio
Anche in presenza di estinzione del giudizio, la prescrizione
non decorre dalla notifica dell’atto impositivo, ma si parte dalla sentenza della Corte di cassazione
Con la sentenza 1091/10/14, la Commissione tributaria provinciale di Bologna, si è pronunciata sul
tema dell’applicabilità o meno al procedimento tributario, dell’articolo 2945,
comma 3, del codice civile, in forza del quale “se il processo si estingue,
rimane fermo l’effetto interruttivo e il nuovo periodo di prescrizione comincia
dalla data dell’atto interruttivo”.
Più precisamente, la Ctp ha statuito che, nell’ipotesi in cui il contribuente non riassuma la causa davanti alla Commissione tributaria regionale a seguito di sentenza del Collegio supremo che ha cassato con rinvio la precedente sentenza di secondo grado, nel termine di legge:
·
l’atto
impositivo diviene definitivo
·
il termine per iscrivere a ruolo le
somme recate dal predetto incomincia a decorrere dallo spirare del termine che
il contribuente aveva a disposizione per riassume il giudizio, a seguito della
pronuncia della Cassazione
con susseguente, implicita, pronuncia di inapplicabilità
dell’articolo 2945, comma 3, del cc alle fattispecie di estinzione disciplinate
dall’articolo 63, comma 2, del Dlgs 546/1992.
Svolgimento del processo
Svolgimento del processo
L’ufficio aveva liquidato l’imposta di successione con atto
notificato il 20 dicembre 2001.
Il contribuente impugnava giudizialmente l’avviso di liquidazione, ottenendo sentenza a lui favorevole sia in primo che in secondo grado.
Il contribuente impugnava giudizialmente l’avviso di liquidazione, ottenendo sentenza a lui favorevole sia in primo che in secondo grado.
L’Agenzia delle Entrate ricorreva allora alla Corte suprema
che, con propria sentenza, l’11 aprile 2011, cassava il pronunciamento di
secondo grado, con rimessione degli atti alla Commissione tributaria regionale.
Il contribuente non riassumeva il giudizio nell’anno e
quarantacinque giorni (per la sospensione feriale) a sua disposizione e,
pertanto, l’avviso di liquidazione diveniva definitivo il 26 giugno 2012.
L’ufficio iscriveva a ruolo l’imposta dovuta il 19 febbraio
2013; seguiva la notifica della cartella di pagamento in data 24 aprile 2013.
Il contribuente opponeva la medesima giudizialmente, eccependo:
·
che
la mancata riassunzione avrebbe reso definitiva l’ultima pronuncia resa e non
annullata e cioè, nel caso di specie, la pronuncia della Commissione tributaria
provinciale
·
anche
se l’avviso di liquidazione opposto fosse divenuto definitivo, lo stesso lo
sarebbe divenuto a far data dalla sua notifica (20 dicembre 2001) e, pertanto,
il credito in esso recato non avrebbe potuto essere iscritto a ruolo per
decorso del termine decennale di prescrizione di cui all’articolo 41, comma 2,
del Dlgs 346/1990.
Più precisamente, a detta della parte ricorrente, anche
nell’ipotesi di estinzione del giudizio tributario opererebbe l’istituto della
“prescrizione istantanea” prevista dall’articolo 2945, comma 3, del codice
civile, in forza del quale la prescrizione non rimane sospesa per tutto il
giudizio, ma incomincia a decorrere nuovamente dall’ultimo atto notificato alla
propria controparte (che, nel caso in esame, era l’avviso di liquidazione
stesso).
Sotto il primo motivo di ricorso, l’ufficio si limitava a richiamare la sentenza 5044/2012 della Cassazione, ai sensi della quale “la pronuncia di estinzione del giudizio comporta, ex art. 393 c.p.c., il venir meno dell’intero processo e, in forza dei principi in materia di impugnazione dell’atto tributario, la definitività dell’avviso di accertamento e quindi l’integrale accoglimento delle ragioni erariali”.
Riguardo al secondo profilo, le repliche dell’Agenzia si articolavano su una triplice linea difensiva:
·
prima
della sentenza della Cassazione sarebbe stato legalmente impossibile iscrivere
a ruolo le somme liquidate e, pertanto, sarebbe stato applicabile al caso di
specie l’articolo 2935 del cc, secondo cui “la prescrizione comincia a
decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere”
·
il
giudizio di opposizione all’atto amministrativo sarebbe equiparabile al
giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo, non al giudizio civile
ordinario: con la conseguenza che, in analogia a quanto al riguardo dispone
l’articolo 653 del codice procedura civile, alla mancata riassunzione del
giudizio in sede di rinvio (dalla Cassazione) consegue non già l’estinzione
dell’intero procedimento, bensì che “il decreto che non ne sia già munito
acquista efficacia esecutiva”
·
richiamo
alla sentenza 3040/2008 della Cassazione, che aveva addirittura dichiarato
inammissibile una riassunzione – a seguito di sentenza che cassava con rinvio
il provvedimento di secondo grado – proposta dall’ufficio, per “difetto di
interesse ad agire” in capo allo stesso.
Il giudice di prime cure – premesso che si è
richiamato alla pronuncia 5044/2012 della Cassazione, per la quale la mancata
riassunzione rende definitivo l’atto impositivo – con riferimento al momento dal quale calcolare il decorso della
prescrizione (per l’iscrizione a ruolo del credito erariale) ha accolto la
prima argomentazione difensiva dell’ufficio, dichiarando che, fino alla
sentenza del Collegio supremo, sussiste una impossibilità giuridica
dell’Amministrazione finanziaria a iscrivere a ruolo le somme dovute.
Va fatto notare, però, che qualora la sentenza di secondo grado fosse stata parzialmente favorevole all’Agenzia, il termine di prescrizione per iscrivere a ruolo gli importi dovuti sarebbe decorso dalla stessa.
Più precisamente, in ipotesi di sentenza parzialmente
favorevole non vi sarebbe stata alcuna impossibilità giuridica a iscrivere a
ruolo le somme dovute, già ripetibili in forza dell’articolo 68 del Dlgs
546/1992.
20) Estinzione
del giudizio e riscossione – Cassaz. n. 4574 del 6 marzo
2015
Riscossione di somme pretese con avviso di accertamento a
seguito di estinzione del giudizio –
L'estinzione del giudizio, causata
dall'inattività delle parli e dalla mancata riassunzione della controversia,
comporta il venir meno dei dell’intero processo e la conseguente definitività
dell'avviso di accertamento.
In sostanza, è come se l'accertamento oggetto
del giudizio non fosse mai stato impugnato, dacché lo stesso si considera
definitivo trascorsi 60 giorni dalla sua
notifica.
In una tale situazione risulta quasi sempre
impossibile, per l'amministrazione, esigere la pretesa tributaria contenuta nell'atto
impositivo originario, poiché trova applicazione l'articolo 25 del dpr
602/73, secondo cui la cartella di pagamento deve essere notificata entro il 31
dicembre «del secondo anno successivo a quello in cui l'accertamento è divenuto
definitivo».
Il momento di definitività dell'accertamento
si individua a partire dalla sua emissione, computando i 60 giorni canonici a
disposizione per proporre l'impugnazione, trascorsi inutilmente i quali lo
stesso diventa, appunto, definitivo. L'estinzione del giudizio, infatti,
vanifica e fa venir meno l'intero processo, ivi compreso il ricorso
introduttivo proposto per l'impugnazione dell'avviso.
Dunque, se l'estinzione del processo si
verifica in un momento successivo allo spirare del termine stabilito dal citato
art. 25 (come è plausibile che sia, nella maggior parte dei casi, considerando
la durata dei processi), la pretesa contenuta nell'accertamento diventa
inesigibile e l'eventuale cartella emessa è illegittima. Tali conclusioni si
traggono dalla lettura della sent. n. 4574/2015, emessa dalla sezione quinta
della Corte di cassazione.
Non opera, invece, il più lungo termine di
prescrizione ordinaria (decennale), poiché non trattasi di pretesa derivante da
una sentenza, bensì di pretesa derivante direttamente dall'avviso di
accertamento (divenuto definitivo per
mancata impugnazione, stante l'estinzione del giudizio e il venir meno
dell'intero processo).
In caso di estinzione del processo, quindi, la
cartella può essere notificata al massimo entro due anni dalla notifica
originaria (e definitività per mancata impugnazione) dell'avviso di
accertamento.
Le
motivazioni della sentenza
L'Agenzia
delle entrate proponeva ricorso contro una sentenza della Ctr Campania,
favorevole al contribuente, con la quale il giudice aveva confermato
l'annullamento di una cartella di pagamento, uniformandosi a quanto già deciso
dai colleghi della provinciale di Napoli. La questione verteva attorno ai
termini a disposizione dell'amministrazione per la notifica di una cartella
esattoriale, emessa per esigere il pagamento di somme derivanti da un avviso di
accertamento, divenuto definitivo per l'estinzione del giudizio relativo alla
sua originaria impugnazione. Secondo
l'Agenzia delle entrate, infatti, si sarebbe dovuto applicare il termine
ordinario decennale, in forza di quanto stabilito dall'articolo 2953 del
c.c., secondo cui «i diritti per i quali
la legge stabilisce una prescrizione più breve di dieci anni, quando riguardo a
essi è intervenuta sentenza di condanna passata in giudicato, si prescrivono
con il decorso di dieci anni». Di contro, sarebbe illegittima la censurata
decisione della Ctr, che aveva optato per l'operatività del termine stabilito
dall'articolo 25 del dpr 602/73, in base al quale la cartella può essere
notificata entro il secondo anno successivo a quello in cui l'accertamento sia
divenuto definitivo.
La Corte
di cassazione ha rigettato il ricorso e confermato la decisione dei giudici
regionali, seppur con diversa argomentazione rispetto a quella resa nella
impugnata sentenza, giudicata «conforme al diritto nel dispositivo, onde esente
da censura».
«La cartella oggetto di
controversia», osservano
gli ermellini, «era stata emessa per
essere l'accertamento divenuto definitivo a seguito di dichiarazione di
estinzione del processo per inattività delle parti».
Come noto,
l'estinzione del giudizio comporta il venir meno dell'intero processo e,
quindi, «in forza dei principi in materia dì impugnazione dell'atto tributario,
la definitività dell'avviso di accertamento». Da ciò deriva «l'inapplicabilità alla fattispecie, caratterizzata
dalla mancanza di una sentenza di condanna, dei principi espressi dalle Sezioni
unite, con la sentenza n. 25790/2009, la quale ha sancito l'applicabilità della
prescrizione nel termine di dieci anni del diritto alla riscossione delle
sanzioni amministrative pecuniarie previste per la violazione di norme
tributarie, derivante da sentenza passata in giudicato, per diretta
applicazione dell'articolo 2953 cod. civ., disciplinante specificamente e in
via generale la cosiddetta actio iudicati».
La
dichiarazione di estinzione, dunque, travolge l'intero processo, comprese le
sentenze e gli atti che lo compongono (tra cui il ricorso introduttivo).
Ne discende che la definitività
dell'accertamento si manifesta, a causa di una mancata valida impugnazione,
decorsi 60 giorni dalla sua originaria notifica; da tale momento, comincia a correre
il termine biennale stabilito dall'articolo 25 del dpr 602/73, secondo cui la
cartella di pagamento deve essere notificata entro il 31 dicembre «del secondo
anno successivo a quello in cui l'accertamento è divenuto definitivo». Se la
cartella è notificata oltre tale termine, essa è illegittima.
************
(fine)
[1] In Banca
Dati DeJure Giuffrè
[2] In Banca
Dati DeJure Giuffrè
[3] In Banca
Dati DeJure Giuffrè
[4] Cassaz.
Civ., sez. III, 5 novembre 2002, n. 15493, In Banca Dati DeJure Giuffrè .
[5]
Cassazione civile, sez. II, 23 dicembre 2003, n. 19727, In Banca Dati DeJure
Giuffrè.
[6]
Cassazione, sentenza 28.05.2007 n° 12399, In Banca Dati DeJure Giuffrè
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